La riforma del Terzo settore entra nel vivo con la discussione in Parlamento della legge delega che poi dovrà essere seguita dai decreti e dai regolamenti attuativi (e purtroppo, come si usa dire, il diavolo sa annidarsi nei dettagli). Si tratta di una riforma attesa, che dovrebbe offrire nuove opportunità creando ambienti che facilitino l’espressione 'dal basso' delle energie buone della società civile. Non mettendo vincoli arbitrari o tetti dimensionali alle opportunità di bene possibile, facilitando e agevolando – per quanto possibile – le buone organizzazioni sociali (con attenzione ai profili di concorrenza) ed evitando il rischio di dare sostegno a cattive organizzazioni. Il quadro della riforma del Terzo settore sembra, al momento, capace di rispondere efficacemente a queste attese. Elementi importanti sono la spinta verso trasparenza, la rendicontazione, la qualità della
governance, la valutazione d’impatto. E soprattutto va apprezzato il tentativo di risolvere l’apparente dilemma della capitalizzazione (da una parte le attività massimizzatrici di profitto che non hanno problemi ad attirare nuovi capitali di rischio, dall’altra le attività sociali che fanno grande fatica ad attirarli) attraverso la 'ibridazione' delle organizzazioni di Terzo settore e l’apertura al capitale di rischio. È proprio questa la direzione più interessante della riforma che sembra anche evitare l’errore della rigida separazione tra un mondo profit socialmente ed ambientalmente irresponsabile e uno del non profit senza risorse proprie chiamato a riparare i guasti del primo dipendendo per il proprio funzionamento solo dalla generosità dello Stato, delle imprese o delle persone. Una congiunzione dei due mondi appare possibile attraverso organizzazioni che creino valore economico (attraverso la produzione di beni e servizi) in modo già socialmente ed ambientalmente sostenibile. Bella e opportuna a questo proposito la definizione di Terzo settore come «complesso degli enti privati costituiti con finalità civiche e solidaristiche, che, senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività d’interesse generale, anche mediante la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale conseguiti anche attraverso forme di mutualità, in attuazione del principio di sussidiarietà». In questa prospettiva si riconosce e si favorisce per il Terzo settore «l’iniziativa privata svolta senza finalità lucrative, diretta a realizzare prioritariamente la produzione o lo scambio di beni e sevizi di utilità sociale o d’interesse generale, anche al fine di elevare i livelli di tutela dei diritti civili e sociali». Lo ripetiamo ancora una volta: una legge quadro di riforma deve aprire nuove vie e opportunità per favorire lo sviluppo positivo di energie 'dal basso', mentre diventerebbe un boomerang se finisse per tarpare le ali a quanto di buono già esiste. Ed è per questo che è nei dettagli dei decreti attuativi e dei regolamenti che si annidano i pericoli o si aprono nuove prospettive. Il tema più delicato è quello, al tempo stesso così promettente, degli 'ibridi'. Anche se non si chiamano 'imprese sociali' le organizzazioni che ricadono nell’ampio cappello descritto dalla riforma già esistono e prosperano: dalle cooperative sociali di tipo A e B (reinserimento al lavoro di categorie svantaggiate), alle organizzazioni di microcredito, dalle botteghe equosolidali ai gruppi d’acquisto solidali e alla neonata agricoltura sociale, solo per citarne alcune. Se tutto questo mondo avrà, dopo la riforma, maggiori possibilità di accesso a risorse (anche solo private) e a nuove forme organizzative per poter svolgere ancor meglio le proprie finalità sociali, il gioco sarà valso la candela. L’albero della riforma, insomma, ha per ora rami ampi e frondosi, speriamo che non ne perda di importanti strada facendo.