
Pellegrini giubilari in piazza San Pietro, verso la Porta Santa - Cristian Gennari
Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?
Dammi il tuo pozzo, se vuoi darmi la speranza. La tua occhiata che non svanisce. Dammi il tuo costato aperto come il relitto di una nave nell'azzurro. I tuoi occhi senza fondo. Dammi un canto che non finisce mai. Uno stormo che sia visibile da lontanissimo. Dammi una stella che non tramonta. Se non puoi farlo, lasciami nella mia disperazione. La speranza non la si trova da soli. Come il coraggio. E come l’ispirazione poetica. Non dirmi “bisogna sperare”. Ho in me stesso così tanti buoni motivo per non farlo... Allora o mi alzi il mento come faceva mia madre da piccolo, e in mezzo ai capricci e alle lacrime mi faceva vedere l'infinita beltà del suo volto, oppure non rompermi l'anima con la speranza. L'invito a sperare può essere un ricatto. A meno che non coincida – come è per il Giubileo – con l'invito a guardare segni, a vivere esperienze, a sperimentare incontri che rigenerano la speranza. Altrimenti sarebbe come lo stupido ottimismo sbandierato dai media, quello slogan, che oggi ci appare sinistro, di “andrà tutto bene”. Se vuoi che io speri lascia il tuo bacio di cielo bruciarmi per sempre sulle labbra.
La speranza è una benzina per vivere il presente, pieno di desiderio, non un ottuso – quando non cinico e grottesco – ottimismo sul futuro. La speranza è una benzina ed è un orizzonte con cui si vive il presente. Viene da un dono inesauribile, e dal contraccolpo che tale dono provoca. La vita stessa, per alcuni animi semplici, per alcuni angeli che passeggiano nei nostri bar o treni o scuole, e specialmente nelle nostre favelas o tuguri, è un dono talmente infinito che nel loro cuore la speranza è come l'aria dell'alba. Li vedi, li riconosci, gli speranzosi. Trattano un po' d'acqua come un tesoro, la guerra come un orrore, il domani come un regalo. Le persone come una festa. Ma per i più, per noi che abbiamo perso o mai avuto quella purezza quasi angelica, se la speranza fosse solo ideale proiezione di un futuro migliore sarebbe semplicemente “aspettativa”. E vediamo come la delusione delle aspettative infligga traumi nella nostra esistenza.
Vedo in giro un sacco di aspettative. Di esser sempre sani, di esser sempre belli, di esser sempre soddisfatti. E così l'aspettativa si trasforma spesso in stupida pretesa verso gli altri. Che mi devono garantire salute, riconoscimento, soddisfazione. E si inanellano delusioni, che non di rado divengono amarezze, quando non cupe rimostranze. Le aspettative, i desideri sono legittimi, ma non lo sono necessariamente i modi con cui vorremmo si compissero. Specialmente quando in ballo c'è anche la libertà altrui. E quel che va chiamato con il suo nome: l'abisso della diversità. L'aspettativa, per quanto inevitabile, necessaria persino, rischia a volte di essere una lente deformante. Riduce il mondo a serbatoio di possibilità per adempiere al compito di soddisfare tali aspettative. È il fondamento di quell’ambiguo atteggiamento che si nasconde in slogan tipo “se lo vuoi, puoi” o “se lo sogni accade”. In tali slogan si nasconde una pretesa o sicumera di riuscita e di compimento delle aspettative per come si immaginano adempiute che può generare, e genera, frustrazioni aspre, e rancori, o addirittura disperazioni. E quel generale diffuso scontento nello “stare al mondo” che connota molta dell’ansia contemporanea.
La continua promessa di una specie di paradiso delle aspettative – che ha fatto da benzina a tante utopie ideologiche, a dinamiche consumistiche e a sogni tecnologici di questi secoli – ha generato in molti l'ansia di capire di chi è la colpa del fallimento di tale paradiso dietro l'angolo, la colpa insomma della non piena felicità della vita in terra. Lo aveva compreso già negli anni '40 del Novecento un grande poeta, Wystan Hugh Auden, che chiamava già allora la nostra «l’età dell’ansia». Le aspettative possono diventare ansiogene. Ma l'ansia è il contrario della speranza. Infatti, la speranza non delude. E sì, ci fa tornare angelici nonostante noi stessi. Perché la speranza rende leggeri, simpatetici, poveri e lieti. Anche in mezzo al crollo delle aspettative, la speranza non delude. Non si aspetta il paradiso in terra, né che il mondo sia a disposizione dei miei desideri e aspettative. Non si rammarica, né viene meno se una cosa desiderata non si realizza, o non si realizza come immaginavo. Ma la speranza, appunto, dipende su che cosa si poggia, da quale pozzo attinge la sua benzina, da quale visione trae il proprio orizzonte. Su quale dono. La vita, certo. Ma cosa conferma la vita? Cosa ne certifica la forza infinita? In che cosa speri sperando nella vita? Nell'auspicio che tutto vada per il meglio ? Nell’aspettativa che gli amici o gli amori non ti deludano o tradiscano, che la salute non ti abbandoni (capiterà a tutti prima o poi), o addirittura posa sulla considerazione perfino cinica che speri che la freccia della disperazione colga altri ma non te ? Come dire una speranza ombrello. O antimissile.
Forse è per questo che c'è poca speranza in giro, mentre ci sono un sacco di aspettative, a volte persino eccessive, e pretese reciproche. Perché la speranza ha invece bisogno di un pozzo profondo. Come quello a cui attingono quegli angeli delle favelas che ti guardano e sembrano dirti: “Ehi, amico, Dio ti ha dato la vita, sorridi”. Ma noi, come disse un poeta profeta del nostro tempo, nasciamo senza più sentire la benedizione della nascita. Sentiamo il trauma della nascita, ma non la mano che ci chiama al mondo come per un dono, una benedizione. Abbiamo talmente perso la semplicità del cuore, la vera povertà del cuore, che la nascita ci pare più un problema da indagare che un dono da accettare e inseguire nelle sue meravigliose propaggini. E così la speranza naturale scompare, sotto una coltre di stupida scontentezza. Non sentire più la benedizione della nascita è, specialmente nelle generazioni più giovani, una crepa nella possibilità di sperare. Se vengo da un caso o da un errore, in che destino dovrei sperare? Spero al massimo di non stare troppo male, e amen se capita al mio vicino. E dunque si fa più acuta la necessità che dalle fontane del soprannaturale si irrighino nuovamente le terre inaridite della nostra speranza. Si fa acuta la sete, anche inconsapevole di qualcosa che non deluda.
Il compito dei cristiani, diceva don Giussani con immagine poetica, come suo solito, è «sostenere la speranza degli uomini». Sostenerla, non generarla, perché a questo concorrono natura e soprannatura. Ma noi possiamo “sostenere”, come se sul nostro petto, pur ferito e manchevole, potesse posarsi l’argano che solleva altri cuori. E su altri petti per noi. Abbiamo bisogno tutti di gesti che sostengano la nostra speranza. Abbiamo bisogno di miracoli per sperare. Perché non ci basta il miracolo di vivere. E occorre che qualcuno ci tiri su il mento, che uno sguardo si apra sul nostro petto, che un grido infinito di croce e di vittoria muova le onde della nostra anima quando si immobilizza. Occorre lo scandalo infinito della risurrezione. Che brilla disseminato in certi occhi di favelas di clausura di sanatorio. E anche in luoghi impensati in cui capitiamo, baracchini della piadina, ostelli, sale di bizzarri convegni, poesie di ragazzini, canzoni di successo...
«La risurrezione come un movimento già iniziato nelle cose», scrissi più di vent'anni fa. Io mi ci sono giocato la vita, sulla speranza, e so quanto può essere strano, non dico solo difficile, in momenti in cui ti fissano occhi amati incupiti di disperazione, o assisti a gesti fatali di annullamento. Il mio amico Eugenio Borgna sapeva e diceva che quando un'anima si ammala di quel che chiamiamo vagamente e genericamente depressione si ferma in lei il senso del tempo e del suo domani. Il tempo si rimette in moto se sorge un desiderio di amore, una speranza. Molte sono intorno a noi le anime immobili. Una possibile radice linguistica del termine “psichiatra”, cioè chi cura l'anima, rimanda a retaggi protogreci e indoeuropei che indicherebbero l'azione del movimento, dello scuotersi. Da qui deriva anche il potere rigenerativo quando non curativo del ritmo, della voce poetica, della danza. Al morso della taranta della disperazione e dell’anima in folle risponde il ritmo della danza. Per sperare ci vuole qualcosa che scuota, che rimetta in moto.
Non siamo peggiori di altri. Anche san Francesco fissava negli occhi i suoi compagni e fratelli per chiedere che dessero speranza quando cedeva alle sue ombre. Accade a tutti che l’anima e la vita che è in lei a volte si fermino. E girino a vuoto come un motore tenuto “in folle” – che strana ed esatta espressione abbiamo inventato noi italiani anche in questo caso. Occorre che qualcuno inserisca la marcia, occorre che l'argano delle stelle ci rimetta in moto. Nel Vangelo è detto che il Dio Risorto che cammina accarezzando le spighe nei campi e i bambini lungo la strada è venuto per dare speranza ai miseri. Cioè a noi.