Ogni mattina usciamo di casa, portiamo i nostri figli all’asilo, li affidiamo agli insegnanti e poi la porta si chiude dietro le loro spalle. Torniamo a prenderli dopo molte ore e non sapremo mai con certezza cosa sia avvenuto nel frattempo. È la natura delle società complesse, dobbiamo delegare e quindi fidarci degli altri. Se non fossimo disposti a questa fiducia, ci ricorda il sociologo Niklas Luhmann, «non potremmo neanche alzarci dal letto la mattina, saremmo assaliti da una paura indeterminata e da un panico paralizzante». Fortunatamente, com’è naturale che sia, nella stragrande maggioranza dei casi, i nostri figli vengono accuditi in modo amorevole, viene insegnato loro qualcosa che gli sarà utile per il resto della loro vita, con una passione e premura che gli farà venire voglia di tornare a incontrare i loro insegnanti anche il giorno dopo e il giorno dopo ancora.
Qualche volta, però, sia pure raramente, qualcosa va storto e questa fiducia viene tradita. Sono storie di maltrattamenti, prevaricazioni e vili soprusi, tanto più odiosi perché perpetrati ai danni dei più indifesi e vulnerabili.
La legge appena approvata alla Camera, che prevede la possibilità di installare apparati di videosorveglianza in asili nido, scuole dell’infanzia e residenze per anziani, nasce dall’esigenza di porre un freno a episodi di questo tipo. Al di là del problema della privacy, che la nuova legge pone, e sul quale sembra essersi concentrato quasi esclusivamente il dibattito, si pone un tema più fondamentale, quello relativo all’efficacia della norma, sulla sua effettiva capacità, cioè, di ridurre gli episodi di maltrattamento.
L’istallazione di videocamere di sorveglianza in un bancomat, in un distributore di benzina o all’incrocio di una strada sicuramente riduce il rischio di reati attraverso un effetto deterrente. Ma in una scuola? In un ospedale? In tutti i casi nei quali il lavoro ha un’intrinseca componente "vocazionale" – non si fa l’insegnante, l’infermiere, il medico o l’assistente sociale solo per sbarcare il lunario – un eccesso di controllo può avere un effetto controproducente. Si sa, infatti, che in questi casi, così come la fiducia ricevuta ci rende più affidabili, allo stesso modo la diffidenza può favorire l’opportunismo. Un controllo troppo stretto allora rischia di segnalare sfiducia e diffidenza e quindi di erodere le fondamenta stesse del patto sul quale i lavori di cura si fondano.
Possiamo trovare modi più efficaci per tutelare gli interessi degli utenti. Progettare leggi per premiare chi le rispetta piuttosto che per punire chi le vìola. Sappiamo infatti che una multa per chi va a prendere i figli in ritardo a scuola, farà solo aumentare il numero dei ritardatari. Un controllo più stringente sui lavoratori, ne farà calare la produttività. Se ti lascio, invece, più discrezionalità e magari ti pago anche un po’ più del dovuto, la tua motivazione e con essa la tua produttività, aumenterà.
Potremmo per esempio sfruttare il meccanismo reputazionale. Diamo valutazioni sul ristorante dove abbiamo cenato, sull’albergo dove siamo stati in vacanza, sull’ultimo libro che abbiamo letto e questo procura al ristorante e all’albergo nuovi clienti e all’autore nuovi lettori. Lo stesso meccanismo può essere utilizzato per premiare quei fornitori di servizi alla persona di alta qualità. Possiamo poi cercare non tanto di punire i disonesti, ma fare in modo che i disonesti non siano posti nelle condizioni di fare lavori sensibili. Potremmo attivare, per questo, processi di selezione in grado di verificare periodicamente le competenze umane e motivazionali di coloro cui affidiamo i nostri cari: propensione all’aiuto, empatia, le motivazioni profonde.
Perché sperare di scoraggiare l’opportunismo attraverso la diffidenza è come cercare di fondare un matrimonio duraturo su un contratto pre-matrimoniale: è semplicemente una pessima idea.
In tutti i casi nei quali il lavoro ha una componente «vocazionale», un eccesso di controllo può avere un effetto controproducente
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