Il terzo anniversario della rivoluzione che ha posto fine al lungo regno di Hosni Mubarak e portato, poi, al potere i Fratelli musulmani di Mohammed Morsi si è consumato ieri con l’ennesimo bagno di sangue: tre attentati kamikaze al Cairo (in parte rivendicati dal gruppo jihadista Ansar Bait al-Makdis), sangue nelle piazze, vittime negli scontri fra forze dell’ordine e manifestanti, decine di feriti, un centinaio di arresti. Un bilancio che mette in drammatica evidenza il fallimento della primavera egiziana, allineando – fra attori e comprimari – una nutrita schiera di sconfitti. Sconfitti sono certamente i Fratelli musulmani, la cui imperdonabile miopia nell’occupare il potere quasi fosse una vendetta privata nei confronti della storia ha finito per ritorcersi contro il movimento stesso, relegandolo nuovamente – dopo quasi un secolo di sostanziale clandestinità – nel retrobottega della civiltà, con la messa al bando e l’accusa di terrorismo. Sconfitta è anche l’ala
liberal della società civile egiziana, quel blocco di
Tamarod i cui membri, per primi, erano scesi in Piazza Tahrir tre anni or sono reclamando democrazia, libero mercato, libertà di stampa e di opinione e che ora, incapaci e inadeguati a trovare e sostenere dei leader credibili si sono trovati strangolati dal confronto fra i sostenitori di Morsi e l’apparato militare. Anche i salafiti, che all’origine avevano contribuito alla vittoria elettorale dei Fratelli musulmani, garantendo loro la maggioranza assoluta, sono rimasti schiacciati dalla repressione. Non possiamo dir vincitori neppure i 'cani sciolti' nostalgici dell’età d’oro di Abdel Gamal al-Nasser, orfani di un panarabismo socialisteggiante che difficilmente troverà cittadinanza nell’Egitto di oggi, così come senza patria e senza grande futuro appaiono i
feloul (letteralmente: 'gli avanzi'), quella casta piccolo borghese di funzionari e dipendenti dello Stato che prosperava sotto Mubarak e che Morsi aveva messo all’indice. Ora sono in mezzo al guado, guardati con eguale sospetto dalle forze armate come dai loro avversari politici. Ma anche gli stessi militari, su tutti Abdel Fatah al-Sissi, l’uomo forte che quotidianamente appare in televisione coronato di medaglie, non possono cantare vittoria. Sotto il pugno di ferro dell’esercito, l’Egitto rischia di precipitare nel peggior passato, dando vita a un vero e proprio regime autoritario che, come testimonia un rapporto di Amnesty International dal significativo titolo
Egypt, roadmap to repression, ha finora lasciato sul terreno oltre 1.400 morti e un numero elevatissimo di feriti, con sistematiche violazioni dei diritti umani e un pericoloso ritorno allo Stato di polizia degli anni del rais.Certo, la Costituzione da poco votata dal 42% dei cittadini (soprattutto dalla classe media, dai cristiani copti, dai piccoli imprenditori alla ricerca di stabilità dopo anni di recessione e di crisi economica) suona come un’implicita conferma alla deposizione di Morsi e un riconoscimento formale alla leadership di al-Sissi. Anche se, come più di un osservatore ha fatto notare, con questa Costituzione (un po’ più laica di prima, ma assai poco democratica) il rischio concreto è quello di passare «da un fascismo islamico a un fascismo militare», quasi che il voto dei giorni scorsi non avesse fatto altro che optare per il male minore. Fra sei mesi si svolgeranno le elezioni presidenziali e, quindi, quelle parlamentari. Sarà decisivo in quel frangente il voto dei milioni di giovani delusi che, per ora, hanno disertato le urne. Loro soltanto, insieme con la pancia sonnolenta del corpo elettorale, potrebbero cambiare il tracciato della
Road map egiziana. Prima che sia troppo tardi.