sabato 25 gennaio 2014
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Il terzo anniversario della rivoluzione che ha posto fine al lungo regno di Hosni Mubarak e portato, poi, al potere i Fra­telli musulmani di Mohammed Morsi si è consumato ieri con l’ennesimo bagno di sangue: tre attentati kamikaze al Cairo (in parte rivendicati dal gruppo jihadista Ansar Bait al-Makdis), sangue nelle piazze, vittime negli scontri fra forze dell’ordine e manife­stanti, decine di feriti, un centinaio di arresti. Un bilancio che mette in drammatica eviden­za il fallimento della primavera egiziana, alli­neando – fra attori e comprimari – una nutri­ta schiera di sconfitti. Sconfitti sono certamente i Fratelli musulma­ni, la cui imperdonabile miopia nell’occupare il potere quasi fosse una vendetta privata nei confronti della storia ha finito per ritorcersi contro il movimento stesso, relegandolo nuo­vamente – dopo quasi un secolo di sostanzia­le clandestinità – nel retrobottega della civiltà, con la messa al bando e l’accusa di terrorismo. Sconfitta è anche l’ala liberal della società ci­vile egiziana, quel blocco di Tamarod i cui membri, per primi, erano scesi in Piazza Tah­rir tre anni or sono reclamando democrazia, li­bero mercato, libertà di stampa e di opinione e che ora, incapaci e inadeguati a trovare e so­stenere dei leader credibili si sono trovati stran­golati dal confronto fra i sostenitori di Morsi e l’apparato militare. Anche i salafiti, che all’o­rigine avevano contribuito alla vittoria eletto­rale dei Fratelli musulmani, garantendo loro la maggioranza assoluta, sono rimasti schiacciati dalla repressione. Non possiamo dir vincitori neppure i 'cani sciolti' nostalgici dell’età d’oro di Abdel Ga­mal al-Nasser, orfani di un panarabismo so­cialisteggiante che difficilmente troverà cit­tadinanza nell’Egitto di oggi, così come sen­za patria e senza grande futuro appaiono i fe­loul (letteralmente: 'gli avanzi'), quella ca­sta piccolo borghese di funzionari e dipen­denti dello Stato che prosperava sotto Mu­barak e che Morsi aveva messo all’indice. O­ra sono in mezzo al guado, guardati con e­guale sospetto dalle forze armate come dai loro avversari politici. Ma anche gli stessi militari, su tutti Abdel Fa­tah al-Sissi, l’uomo forte che quotidianamen­te appare in televisione coronato di medaglie, non possono cantare vittoria. Sotto il pugno di ferro dell’esercito, l’Egitto rischia di precipi­tare nel peggior passato, dando vita a un vero e proprio regime autoritario che, come testi­monia un rapporto di Amnesty International dal significativo titolo Egypt, roadmap to re­pression, ha finora lasciato sul terreno oltre 1.400 morti e un numero elevatissimo di feri­ti, con sistematiche violazioni dei diritti uma­ni e un pericoloso ritorno allo Stato di polizia degli anni del rais.Certo, la Costituzione da poco votata dal 42% dei cittadini (soprattutto dalla classe media, dai cristiani copti, dai piccoli imprenditori alla ricerca di stabilità dopo anni di recessione e di crisi economica) suona come un’implicita conferma alla deposizione di Morsi e un riconoscimento formale alla leadership di al-Sissi. Anche se, come più di un osservatore ha fatto notare, con questa Costituzione (un po’ più laica di prima, ma assai poco democratica) il rischio concreto è quello di passare «da un fascismo islamico a un fascismo militare», quasi che il voto dei giorni scorsi non avesse fatto altro che optare per il male minore. Fra sei mesi si svolgeranno le elezioni presidenziali e, quindi, quelle parlamentari. Sarà decisivo in quel frangente il voto dei milioni di giovani delusi che, per ora, hanno disertato le urne. Loro soltanto, insieme con la pancia sonnolenta del corpo elettorale, potrebbero cambiare il tracciato della Road map egiziana. Prima che sia troppo tardi.
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