I santi non sono soltanto quelli che compiono i miracoli. È vero: forse perché ancora dolcemente legati ai sogni che facevamo da bambini, siamo abituati a pensarli alla maniera di personaggi straordinari, creature ideali allo stesso tempo trafitte e premiate dalla provvidenza divina che divide la loro vita in due: di qua le vicende umili dell’esistenza comune; di là l’irruzione improvvisa delle schiere celesti, tese a sospingerle verso il cielo. Eppure sono le stesse Beatitudini, cioè la Magna Carta del Cristianesimo, che ci esortano a volgere lo sguardo molto più in basso, orientandolo nei territori desolati della miseria umana dove, in mezzo alle scorie delle scelte sbagliate, delle responsabilità disattese, delle promesse non mantenute, perfino tra gli afrori aspri delle putredini, meno ci potremmo attendere l’evento numinoso nel caso in cui ci limitassimo a restare entro i confini logici. Se i poveri in spirito occuperanno, oltre il tempo e lo spazio, gli scranni preziosi dei Quartieri Maggiori, se i miti erediteranno la terra, se chi ha subìto un torto riceverà la sua meritata ricompensa, allora...
Allora dovremmo essere autorizzati a cercare i santi al nostro fianco, riconoscendoli con emozione e gratitudine persino nelle fila dei meno avveduti e timorati, se non addirittura nella calca confusa e polverosa dei mentecatti. È quanto ho vagheggiato nei momenti drammatici della pandemia, quando me ne andavo ciondolando frastornato nelle vie deserte della capitale ferita: la mia attenzione era attirata soprattutto dai vagabondi i quali non avevano neanche un tetto sotto cui ripararsi. Ce n’erano più del solito in quelle giornate stralunate, quasi emersi dalle intercapedini della città dentro cui generalmente si nascondono. Li scoprivi all’angolo delle strade, accasciati a terra sui cartoni d’imballaggio, spalle appoggiate alle pareti dei casamenti, tra bucce d’arancio e molliche di pane, una coperta sulle spalle, il berretto calzato alla rovescia, gli occhi lucidi e ansiosi. Quasi nessuno si avvicinava, un po’ per la paura del contagio, un po’ per il disagio che questi disgraziati suscitavano. E se invece fossero stati proprio loro la sparuta avanguardia degli eletti che ogni primo novembre la liturgia ci chiede di celebrare? Santo è colui che salva, sì, questa è la ragione per cui la religiosità popolare ci fa conservare nel portafoglio screpolato l’immaginetta consunta di santa Rita da Cascia, di Padre Pio o di sant’Antonio da Padova, fra una banconota e un biglietto della metropolitana. Ma Santo è anzitutto, ricordiamolo, colui che viene salvato, secondo criteri imperscrutabili e misteriosi che nel Discorso della Montagna affiorano come speroni di roccia durante la tempesta dove chiunque si potrebbe far male non riconoscendo se stesso all’altezza delle supreme aspettative. In realtà tutti abbiamo la possibilità di diventare santi, qui e ora, non chissà quando e dove. Con le poche semplici carte di cui disponiamo, non rammaricandoci per le numerose mancanti. Come scrisse Dante nel XVI canto del Purgatorio, sta a noi esercitare il libero arbitrio collocando l’azione in cui ci impegniamo nel sentiero più giusto e adeguato: «Esce di mano a lui che la vagheggia / prima che sia, a guisa di fanciulla / che piangendo e ridendo pargoleggia, l’anima semplicetta che sa nulla, / salvo che, mossa da lieto fattore, / volontier torna a ciò che la trastulla. / Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore». Purtroppo l’epoca che stiamo vivendo, imperniata sul successo numerico e sul riscontro immediato, sembra ostacolare il naturale svolgimento delle forze spirituali presenti in ogni essere umano. Ma potrebbe trattarsi di un’illusione ottica. Accecati dai riflettori accesi, rischiamo di non vedere i santi quotidiani che abitano accanto a noi e restano pur sempre attivi: quelli che vivono a fari spenti, nell’anonimato e nella solitudine dei giorni senza nome.