Riti dolorosi ci ha offerto ancora una volta la Settimana Santa. Le parole che si rincorrono sono condanna, insulti, scherno, percosse, sputi, flagellazione, crocifissione, morte, deposizione, sepoltura. In sintesi: passione. Parola straziante per chi ne conosce l’etimo, dal greco
pathein, soffrire, ma che nel XX secolo si è caricata, complice la psicanalisi, di valenze offuscanti, poiché pathos in questa disciplina è diventato sinonimo di emozione, istintività e, in parte, irrazionalità. Le immagini portate in processione sono quelle degli strumenti che gli uomini usavano per far soffrire altri uomini, nell’ambito di un esercizio sanzionatorio della legge, o anche indipendentemente da tale funzione.È la settimana in cui un alone cinereo si leva sull’umanità, perché l’uomo uccide il Figlio dell’uomo, toglie la vita all’Autore della vita e dà prova di amare la tenebra più della luce. È la settimana del compianto, quello delle pie donne, nel rito di consonanza col soffrire e l’andare a morte di un condannato, che qui è anche un giusto, un rabbì, un santo e comunque un uomo senza colpa, passato sanando e beneficando, reo però di blasfemia per essersi attribuito il titolo di Figlio di Dio; la verità ha fatto di lui un reo. È la settimana del pianto di Pietro che rinnega tre volte il Signore. È la settimana dell’
agnitio Domini nel dolore, cioè del riconoscimento, da parte dell’umanità, di non aver riconosciuto Dio e averlo crocifisso; della tardiva ammenda in forma di richiesta di perdono e di commemorazione. E non è solo la settimana del compianto umano. Lo è anche del compianto divino, del Dio che si sente tradito dalla creatura ma non rinuncia ad amarla, e lo fa con quelle stupende parole che il poeta Thomas Stearns Eliot, cogliendone la suprema commozione, recupera da Michea in uno dei poemi-cardine della poesia contemporanea, Mercoledì delle Ceneri: «
O my people, what have I done unto thee? O mio popolo, cosa ti ho fatto? In cosa ti ho nuociuto? Testimonia pure contro di me». Ma la Settimana Santa culmina con la Pasqua, quando la storia terrena, che finirebbe con quella morte cruenta, si dimostra invece non terrena, perché continua, prospettando un altro stadio, di Risurrezione. Con Cristo la morte viene degradata a vicenda di un divenire, che non finisce con la fine della vita. La sofferenza, la crocifissione, la morte ci sono state, ma non sono più, sono trascorse, perché trascorrono le cose di questo mondo, e un altro scenario si solleva sulla vita. La Settimana Santa, coi suoi riti di passione, è la settimana più gioiosa dell’anno. È, anche se non liturgicamente, la vera settimana in laetare. Benedetto XVI è tornato di recente, rivolgendosi ai più giovani, sul concetto di gioia, individuando in essa la dimensione del cristiano, perché la speranza che lo anima con la Pasqua deve essere presente nel suo cuore: non nel senso di non farlo partecipare al dramma della passione, di non farlo consonare col dolore di Cristo; nel senso semmai che, nel suo con-sentire con Lui, il cristiano non può escludere la definitiva eversione del dolore e della morte portate dalla Risurrezione. Questa è l’essenza dell’euanghelion. Questo è il culmine del vangelo, il cui avverbio iniziale greco ('eu' = bene) si è un po’ perso nell’aggettivo della traduzione Buona Novella, né alla comprensione della sua rivoluzionarietà giova la desuetudine della seconda parola, Novella.
Eu-anghelion significa «annuncio di bene». Proclamazione di positività della realtà. Dichiarazione di salvezza e di gloria. Suprema parabola. Parabola finale e definitiva, dopo la quale null’altro vi è da insegnare, perché il Verbo si è fatto esso stesso parabola di carne, annullando la forma terrena in cui è apparsa tra noi, proprio per riaffermare la sua non-soggiacenza alla vicenda conclusiva di ogni vita terrestre.