sabato 7 aprile 2012
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Riti dolorosi ci ha offerto ancora una volta la Settimana Santa. Le parole che si rincorro­no sono condanna, insulti, scherno, percosse, sputi, flagellazione, crocifissione, morte, depo­sizione, sepoltura. In sintesi: passione. Parola straziante per chi ne conosce l’etimo, dal greco pathein, soffrire, ma che nel XX secolo si è cari­cata, complice la psicanalisi, di valenze offu­scanti, poiché pathos in questa disciplina è di­ventato sinonimo di emozione, istintività e, in parte, irrazionalità. Le immagini portate in pro­cessione sono quelle degli strumenti che gli uo­mini usavano per far soffrire altri uomini, nel­l’ambito di un esercizio sanzionatorio della leg­ge, o anche indipendentemente da tale funzio­ne.È la settimana in cui un alone cinereo si le­va sull’umanità, perché l’uomo uccide il Figlio dell’uomo, toglie la vita all’Autore della vita e dà prova di amare la tenebra più della luce. È la set­timana del compianto, quello delle pie donne, nel rito di consonanza col soffrire e l’andare a morte di un condannato, che qui è anche un giu­sto, un rabbì, un santo e comunque un uomo senza colpa, passato sanando e beneficando, reo però di blasfemia per essersi attribuito il titolo di Figlio di Dio; la verità ha fatto di lui un reo. È la settimana del pianto di Pietro che rinnega tre volte il Signore. È la settimana dell’agnitio Do­mini nel dolore, cioè del riconoscimento, da par­te dell’umanità, di non aver riconosciuto Dio e averlo crocifisso; della tardiva ammenda in for­ma di richiesta di perdono e di commemora­zione. E non è solo la settimana del compianto umano. Lo è anche del compianto divino, del Dio che si sente tradito dalla creatura ma non ri­nuncia ad amarla, e lo fa con quelle stupende pa­role che il poeta Thomas Stearns Eliot, coglien­done la suprema commozione, recupera da Mi­chea in uno dei poemi-cardine della poesia con­temporanea, Mercoledì delle Ceneri: «O my peo­ple, what have I done unto thee? O mio popolo, cosa ti ho fatto? In cosa ti ho nuociuto? Testi­monia pure contro di me». Ma la Settimana Santa culmina con la Pasqua, quando la storia terrena, che finirebbe con quella morte cruenta, si dimostra invece non terrena, perché continua, prospettando un al­tro stadio, di Risurrezione. Con Cristo la mor­te viene degradata a vicenda di un divenire, che non finisce con la fine della vita. La sofferenza, la crocifissione, la morte ci sono state, ma non sono più, sono trascorse, perché trascorrono le cose di questo mondo, e un altro scenario si solleva sulla vita. La Settimana Santa, coi suoi riti di passione, è la settimana più gioiosa dell’anno. È, anche se non liturgicamente, la vera settimana in laetare. Be­nedetto XVI è tornato di recente, rivolgendosi ai più giovani, sul concetto di gioia, individuando in essa la dimensione del cristiano, perché la spe­ranza che lo anima con la Pasqua deve essere presente nel suo cuore: non nel senso di non far­lo partecipare al dramma della passione, di non farlo consonare col dolore di Cristo; nel senso semmai che, nel suo con-sentire con Lui, il cri­stiano non può escludere la definitiva eversione del dolore e della morte portate dalla Risurre­zione. Questa è l’essenza dell’eu­anghelion. Que­sto è il culmine del vangelo, il cui avverbio ini­ziale greco ('eu' = bene) si è un po’ perso nel­l’aggettivo della traduzione Buona Novella, né alla comprensione della sua rivoluzionarietà gio­va la desuetudine della seconda parola, Novel­la. Eu-anghelion significa «annuncio di bene». Proclamazione di positività della realtà. Dichia­razione di salvezza e di gloria. Suprema parabo­la. Parabola finale e definitiva, dopo la quale nul­­l’altro vi è da insegnare, perché il Verbo si è fat­to esso stesso parabola di carne, annullando la forma terrena in cui è apparsa tra noi, proprio per riaffermare la sua non-soggiacenza alla vicenda conclusiva di ogni vita terrestre.
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