Di fronte allo scenario di una guerra di aggressione, le coscienze di coloro che non sono direttamente coinvolti e si oppongono alla invasione dell’Ucraina si dividono tra chi afferma un pacifismo assoluto e chi è per inviare armi ai resistenti ucraini. Ritorna la divisione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità: fedeltà assoluta a un ideale, la pace, costi quel che costi. O un calcolo dei mezzi per raggiungere dei fini: resistere all’armata russa che produce morte e devastazione. Una divisione che attraversa i credenti e i non credenti.
I fautori dell’etica della convinzione osservano: la violenza non è una risposta alla violenza. Occorre tentare in tutti i modi di trovare una via negoziale. I fautori dell’etica della responsabilità rispondono: la logica di potenza dell’aggressione richiede innanzitutto una risposta adeguata in termini di azione militare, pena il soccombere. Nel frattempo, difesi da una resistenza sul campo, si potrà negoziare. Un esempio di conflitto dei valori, inevitabile dove sono in gioco un rischio esistenziale, la morte, e un ideale, la libertà liberal-democratica. E ritornano, nelle affermazioni degli ucraini, parole dimenticate: fedeltà a un valore, coraggio, sacrificio. Un conflitto dei valori che non può far dimenticare come le parti in causa non siano sullo stesso piano. Ci sono un aggressore e una vittima, che invoca aiuto.
Il limite dell’etica della convinzione è che si pone su un piano metastorico, dimenticando la tragicità del presente. Di un frattempo dove è in gioco la difesa di «una vedova, un anziano, un orfano». La maggiore coerenza dell’etica della responsabilità – che legittima moralmente l’invio delle armi – è che si fa carico della tragicità del frattempo, e sceglie il male minore: evitare il più possibile che l’aggressore distrugga e uccida impunemente. Nella consapevolezza che entrambe le etiche possono incorrere in effetti indesiderati: la prima, nella ipocrisia della 'anima bella', la seconda nella spirale di una discesa agli inferi della vendetta. Per la coscienza religiosa v’è poi un ulteriore sgomento: riconoscere che la confessione cristiana ortodossa, fin dalle guerre di Jugoslavia, è diventata nei suoi esponenti di spicco ideologia degli aggressori. Come se fosse una teologia politica che legittima la violenza dei più feroci nazionalismi. Certo, vi sono seri e vasti inizi di un dissenso religioso interno. Ma resta la desolante sensazione che lo Spirito invocato nella confessione ortodossa diventi sempre più spesso l’aquila che annuncia l’arrivo dei carri armati. A dimostrazione che una pneumatologia senza cristologia – che non guardi in faccia il negativo e il dolore irredento causato dal male morale – diventa ideologia dell’Impero e non teologia del Regno.
Direttore editoriale Morcelliana, docente nell’Università Cattolica