Le dimissioni per nulla sorprendenti dell’amministratore delegato di Telecom Italia ci ricordano per l’ennesima volta uno sgradevole dato di fatto: le strategie e, più in generale, tutte le scelte che veramente contano riguardo la maggior parte delle grandi aziende italiane sono decise fuori dal nostro Paese. In questo caso il manager Marco Patuano lascia perché non si è mai trovato d’accordo con i progetti del nuovo 'padrone' di Telecom, il colosso francese Vivendi. Abbandonato dagli spagnoli di Telefonica un anno e mezzo fa, l’ex monopolista italiano della telefonia – nonché la società che ancora controlla l’infrastruttura della rete nazionale – è oggi in balìa di una partita tutta francese che vede la Vivendi di Vincent Bolloré, che ne ha il 24,9%, sognare un’integrazione con Mediaset e intanto resistere alla scalata del rivale parigino Xavier Niel e non escludere del tutto la possibilità di fondere il gruppo italiano con l’ex monopolista d’oltralpe Orange. Questo accade nei giorni in cui un altro francese, Philippe Donnet, viene nominato nuovo amministratore delegato di Generali, la più grande compagnia assicurativa del nostro Paese (il cui controllo, almeno, è ancora a maggioranza italiano) e Parmalat – ancora la maggiore impresa alimentare d’Italia per fatturato – rimane senza consiglio di amministrazione, a causa delle liti continue tra rappresentanti dei soci di minoranza e quelli facenti riferimento ai francesi di Lactalis che, nell’estate del 2011, con una magia finanziaria si sono 'bevuti' a un prezzo da saldo il colosso di Collecchio e, soprattutto, gli 1,5 miliardi di euro di liquidità in cassa. Le recenti incursioni in Francia di alcuni nostri campioni nazionali, come Lavazza che ha comprato Carte Noir e Campari che ha conquistato Grand Marnier, sono singole vittorie positive all’interno di una battaglia economica e industriale che però il nostro Paese sta perdendo. L’Italia perde contro la Francia, che ha preso il controllo di troppi nostri gioielli della moda, ma anche contro se stessa. L’Alitalia a guida araba, la Pirelli cinese, e anche la Fiat di proprietà italiana ma sempre più americana nel prendere le decisioni sono 'sconfitte' che pesano. Storicamente incapace di creare un ambiente economico sano in cui grandi gruppi industriali e finanziari potessero svilupparsi al riparo dalle pressioni della politica, ma anche incapace di scegliere i settori su cui puntare per dare una prospettiva chiara al sistema produttivo nazionale (si chiamava politica industriale, questa), gli italiani si ritrovano a guardare da spettatori le avventure di quelle che una volta erano le sue grandi aziende e che oggi sono ridotte al ruolo di divisione italiana di una multinazionale straniera.