«Perché siamo sui social? Cosa ci aspettiamo da queste piattaforme?». Queste le domande che venerdì scorso su questo giornale Gigio Rancilio ha posto a tutti noi, in un editoriale ricco di spunti di riflessione intitolato “Perché il caso Musk ci interpella tutti. Vivere i social senza scappatoie”. Sarà perché l’ha scritto su Avvenire, sarà perché Rancilio condensa la risposta in una sola parola: responsabilità, la lettura dell’articolo mi ha portato a riflettere sul fatto che nel cristianesimo non esiste la “responsabilità oggettiva”, ma si richiama sempre la responsabilità personale. I Dieci Comandamenti e il comandamento dell’amore si rivolgono sempre solamente a me, alla singola persona. Questa premessa ci aiuta a mettere un fuoco un punto decisivo, ma normalmente eluso nel dibattito sul digitale: non siamo inesorabilmente schiavi dei meccanismi dei social. Al contrario, capire il meccanismo di funzionamento delle piattaforme ci consente di declinare tutta la nostra personale responsabilità. Vediamo come.
I social competono per avere la nostra attenzione: «L’attenzione, (il tempo speso da ciascuno di noi in Rete) nel digitale vale oro», ricorda Rancilio. Viviamo nell’economia (e nel mercato) dell’attenzione. In realtà è così da quando esistono i mass media: giornali, radio, televisioni da sempre lottano per catturare la nostra attenzione. Nell’era digitale le piattaforme social, quelle streaming, i sistemi di messaggistica hanno moltiplicato esponenzialmente le “tentazioni” per attrarre la nostra attenzione, perché essa si traduce in dati da vendere a chi fa pubblicità o in abbonamenti. Per questi motivi, le piattaforme social ci offrono sempre più intrattenimento, anzi “trattenimento” nei loro ambienti digitali. Il trattenimento si esercita tramite l’algoritmo. Noi viviamo in una società algoritmica. Come è (dovrebbe essere?) noto, tutti i nostri atti digitali sono tracciati dall’algoritmo e definiscono il nostro identikit, utile a profilare al meglio i messaggi pubblicitari e i suggerimenti che ci vengono proposti. È un male? Dipende. Da cosa? Dal modo in cui noi educhiamo il “nostro” algoritmo, il quale è programmato per capire i nostri gusti in base a quello che postiamo, a cosa cerchiamo online, a chi decidiamo di seguire. Abbiamo quindi uno grande spazio per esercitare la nostra responsabilità, perché decidiamo noi cosa fare online.
Per esempio, nessun algoritmo può scrivere o postare per me un post di insulti o di minacce. «Siamo noi a decidere che tipo di contenuti condividere, che tipo di conversazioni alimentare, che tipo di comunità costruire. I social media siamo noi, non il contrario» ha scritto pochi giorni fa nel suo blog Franz Russo, stimato professionista della comunicazione online. Come hanno dimostrato gli studi del professor Walter Quattrociocchi dell’Università La Sapienza, ecco che i social non sono la causa della polarizzazione, ma l’effetto. Noi siamo naturalmente polarizzati, vogliamo stare con chi è simile a noi, sia nella vita analogica che in quella digitale. Insomma, abbiamo molte più possibilità di esercitare al meglio la nostra libertà, proprio sfruttando i meccanismi di funzionamento delle piattaforme, di quanto ci raccontano i media mainstream e anche illustri e noti studiosi. Le strutture (e le storture) di tali meccanismi o gli interessi dei loro proprietari non possono costituire un alibi per ritirarci in una comoda posizione moralistica, per la quale le colpe sono sempre degli altri, di Musk, di Trump e via dicendo. È chiaro che ai proprietari delle piattaforme dobbiamo continuare a chiedere che siano a loro volta responsabili, dato il potere che hanno e denunciare i cattivi usi di questo potere. Tuttavia l’uso della nostra libertà rimane nella nostra disponibilità. Quindi, prendiamo in mano la nostra responsabilità e usiamo social e piattaforme per fare in modo che l’era digitale diventi il “tempo della persona”. Sta a noi, a me e a te, soprattutto nell’anno giubilare della speranza.