lunedì 6 gennaio 2025
I conflitti hanno tutti gli stessi attori: Russia, Cina, Iran e Paesi occidentali. L'avvento di Trump getta un sasso in piccionaia, da cui potrebbe scaturire un inedito “effetto domino”
Svitlana Vlasyk davanti a ciò che rimane della sua casa a Chernihiv in Ucraina

Svitlana Vlasyk davanti a ciò che rimane della sua casa a Chernihiv in Ucraina - Reuters

COMMENTA E CONDIVIDI

Il richiamo potente di papa Francesco nella celebrazione della Giornata mondiale della pace su quella «guerra disumana che spezza il cuore delle madri e distrugge i sogni dei giovani» getta un pesante sigillo su quel 2024 che è stato inconfutabilmente l’anno delle guerre, anzi di quella che già un anno fa il papa aveva definito «una terza guerra mondiale a pezzi». Tutto vero. Secondo il rapporto di Global Peace Index in questo momento il mondo è dilaniato da 56 conflitti, il più alto numero mai registrato dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sui 163 Paesi analizzati, 97 registrano un peggioramento delle condizioni di pace. All’ultimo posto c’è lo Yemen, il Paese meno pacifico al mondo, seguito da Sudan, Sud Sudan, Afghanistan e Ucraina. Una classifica che dice tutto e impone una domanda: come sarà il 2025?

Tre grandi focolai lanciano tuttora sinistri barbagli sulle tenebre e le rovine che la guerra ha prodotto, senza dare confortevoli segni di speranza. Ma un’analisi attenta delle circostanze offre risposte un po’ meno catastrofiche e una suggestiva teoria del domino alla rovescia. I tre focolai sono l’Ucraina, il Medio Oriente e il Sudan, tre stazioni del mai sopito “Great Game”. Apparentemente si tratta di situazioni statiche, come bloccate. L’invasione russa del febbraio 2002 ha prodotto centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi, devastato una nazione e sgretolato mese dopo mese la convinzione che Kiev potesse fronteggiare l’orso russo e addirittura batterlo riconquistando le porzioni di territorio che l’operazione speciale avviata da Vladimir Putin aveva aggiunto alla Crimea, già incorporata nel 2014 con un fulmineo quanto incruento Anschluss. Un’Europa sempre meno incline a sostenere lo sforzo di Zelensky fa da contraltare a una Nato che reclama un riarmo pesante coinvolgendo risorse dei singoli stati membri nella prospettiva di dover fronteggiare in futuro una Russia ritornata prepotentemente imperialista.

Fra le righe e i tortuosi rituali della diplomazia (nel frattempo ha ripreso vigore la guerra del gas) si scorge tuttavia una certezza: Russia e Ucraina (e dietro di esse l’Europa) sono stanche di guerra. Entrambe cercano un compromesso che assomigli a una pace e allontani definitivamente la guerra. Se pace sarà, avverrà a prezzo di uno smembramento di Donetsk e Lugansk e territori limitrofi. Lo stremato Zelensky prima o poi in qualche modo dovrà cedere: già si ode il coro, dall’Economist al Wall Street Journal al New York Times, di coloro che suggeriscono un onesto ritiro dalle scene dell’ex comico (Elon Musk lo definisce «il campione ruba-soldi di tutti i tempi») con la garanzia dell’onore delle armi. Solo così, con nuove elezioni a Kiev e un presidente diverso da Zelensky, Putin si dice disposto a sedersi a un tavolo di pace. Davvero impossibile che si avveri?

La domanda vale anche per l’incendio dilagato nel Medio Oriente. Dal pogrom palestinese del 7 ottobre 2023 la carta geografica della zona è già profondamente cambiata. Gaza è un cumulo di macerie, sulle sue rovine giacciono 50mila morti e oltre un milione di palestinesi vagolano su una landa desolata: mai come oggi la “Waste Land”, di T.S.Eliot – terra guasta, devastata, scandita dalle parole dell’indovino Tiresia – appare più appropriata per rappresentare la tragedia di Gaza. Un luogo d’inferno, senza un domani, senza una promessa di pace. A meno che il 2025 non cambi drasticamente le carte in tavola. Magari, complice un’inaspettata pace in Ucraina, un cambio di governo a Tel Aviv con nuove elezioni e una diversa maggioranza, anche Israele potrebbe tornare sui propri passi e favorire la nascita di uno stato palestinese.

Pura utopia? In un certo senso sì, ma la caduta di Assad, il controllo turco sulle frontiere curde, il trasloco russo nelle nuove basi navali libiche, la rotta di Hezbollah in Libano, la mezzaluna sciita mutilata, la rappresaglia sugli Houthi, l’occupazione delle alture del Golan, la distruzione dell’arsenale di Teheran in Siria potrebbero per paradosso cambiare le carte in tavola. Una pace in Ucraina porterebbe in caduta – da qui il domino alla rovescia - a quella Pax Israeliana che è il ridisegno della carta geopolitica del Medio Oriente (e il disegno finale di Benjamin Netanyahu).

Ma in questo risiko alla ricerca della pace c’è una variabile che è ancora una carta coperta: la variabile Donald Trump. Il presidente eletto si insedierà il 20 gennaio. Le sue promesse e le sue minacce sono stranote. Comprese quella di abbandonare la Nato al suo destino e così pure Taiwan dedicandosi alla sfida commerciale con la Cina. Attorniato da un sinedrio di tecnocrati multimiliardari (una prosecuzione con altri mezzi dell’aristocrazia ateniese e della repubblica vagheggiata da Platone, dove a governare sarebbero stati i filosofi, ovvero i più saggi e meritevoli) su cui spiccano il sulfureo Elon Musk e il più defilato (ma influentissimo) Peter Thiel, Trump punta a guidare l’America sotto l’ala di una democrazia tecno-populista di intonazione sovranista-nazionalista: «È la tech-right, bellezza – gongolano gli oligarchi – e tu non puoi farci niente». In altre parole, una destra ipermoderna che ha attirato gli squali della Silicon Valley con le promesse di un succulento sconto fiscale e un radioso futuro accanto al vincitore delle elezioni e poi ha sedotto il tycoon di Amazon Jeff Bezos (terzo uomo più ricco del mondo) e costretto il pur prudente Mark Zuckerberg (Meta-Facebook-Instagram-WhatsApp) a venire a patti con The Donald.

L’imprevedibilità del quale lascia aperte tutte le porte: dal disimpegno mediorientale al ridimensionamento della Nato, fino alla pace. Non quella perpetua di Immanuel Kant, ma per lo meno un simulacro di pace sui campi insanguinati di Ucraina e Gaza. Una pace fra superpotenze, basata sulla reciproca convenienza. Ma, come si è detto, c’è una terza terribile guerra, dimenticata e ignorata perché troppo lontana dal proscenio della politica internazionale. Il conflitto armato che si consuma in Sudan è una tragedia, dietro la quale si intravedono gli appetiti di Russia, Iran e Cina, soccorrevoli e puntuali fornitori di armi a entrambe le fazioni, il cui unico interesse è ridisegnare la mappa delle influenze nel vasto quadrante africano: la Russia nel Mare Nostrum e in alcune zone subsahariane, la Cina come land grabber intenzionata a fare del continente uno hub minerario, logistico e commerciale quale prosecuzione ideale della Via della Seta. In altre parole, denaro, petrolio, armi, profitti. In una sola parola, potere. Che altro?
Ma a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, la guerra, le guerre, sono costruzioni fragili, instabili, malsicure. Basta niente a farle crollare. Anzi, ne basta una che collassi perché tutte le altre si adattino. Pace, paci possibili. Se non ora, quando?

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: