Non ci sono morti che valgono più di altri, perché ogni vita ha uguale dignità e valore. Ma ci sono morti che colpiscono più di altre perché una caratteristica, a volte anche solo un dettaglio, ci rendono più vicine le vittime. Come accade per Luana, l’operaia tessile che ha perso la vita stritolata da un macchinario a Prato ad appena 22 anni. Come una figlia nel fiore degli anni per tanti di noi e assieme una giovane madre che proprio con la maternità sperimentava la gioia di una vita piena. La stessa vita che le è stata spezzata l’altro ieri in una maniera per noi inaccettabile.
Il profondo senso di ingiustizia che oggi un po’ tutto il Paese avverte è ancora più sentito di quanto non sia avvenuto in occasione di altre tragedie sul lavoro proprio per questo. Perché non si può finire la vita a 22 anni. Perché è sempre un dramma quando un bambino resta orfano. Ma soprattutto perché non si deve morire così: lavorando. Non incastrati nei rulli di un orditoio. Non nel 2021, quando l’intelligenza artificiale è in grado di far muovere un intero magazzino e guidare un pacco da Shanghai a casa nostra nel giro di 24 ore. Non quando la grande parte delle automobili sono in grado di frenare da sole o valutare se si sta oltrepassando la corsia di marcia. Le macchine utensili con le quali si lavora non possono essere da meno, non avere sistemi di protezione attivi e passivi in grado di evitare gli incidenti. La vita e la salute di un lavoratore, di ogni lavoratore, non può essere ostaggio della fatalità e neppure della nostra stessa imperfezione di esseri umani. Il criterio primario nell’organizzazione di ogni fabbrica, di ogni attività economica, dev’essere la sicurezza dei lavoratori. Molto, molto prima dell’efficienza e della redditività.
Sarà l’inchiesta giudiziaria a stabilire se ci sono responsabilità, che cosa non ha funzionato nell’opificio pratese. Se le leggi sulla sicurezza esistenti, già abbastanza evolute, siano state rispettate e la causa vada cercata in un malfunzionamento, in un errore di utilizzo o se si sono verificate colpevoli omissioni. Ma perché il sacrificio di Luana non sia vano occorre saper andare oltre l’emozione del momento. Evitando la retorica dei proclami, delle richieste di nuovi inasprimenti delle norme, dei 'mai più' pronunciati sui social ai quali l’unico seguito è il nulla fino al prossimo decesso che finisce sui media. Piuttosto, occorre l’impegno in un’opera meno clamorosa ma più capillare di verifica delle condizioni reali di lavoro, di formazione e di promozione della cultura della sicurezza. Un’opera da costruire e far avanzare insieme: autorità pubbliche, imprenditori e sindacati.
Lo dobbiamo non solo a Luana e al suo bambino, ma allo stesso modo a Mattia, morto a 23 anni schiacciato da un’impalcatura; a Sabri finito sotto una pressa anche lui a 22 anni e pure agli altri 185 lavoratori di diversa età e condizione che nel solo primo trimestre di quest’anno hanno perso la vita lavorando, senza che di loro si scrivesse per più di qualche riga in pagina di cronaca. Anche il Primo Maggio si è parlato soprattutto di altro, il tema della sicurezza del lavoro è rimasto sullo sfondo offuscato da altre più mediatiche urgenze. Ma le questioni di vita e di morte non possono non essere la priorità. Tutti i giorni, per tutte le persone: quei troppi figli, madri, padri, fratelli e sorelle che perdiamo invece di proteggere.