Il ministro del Lavoro ha gettato subito acqua sul fuoco: non c’è alcuna intenzione di rivedere le pensioni di reversibilità. «La proposta di legge delega del governo lascia esplicitamente intatti tutti i trattamenti in essere – ha spiegato
Giuliano Poletti –. E per il futuro non è allo studio alcun intervento sulle pensioni di reversibilità» se non «il superamento di sovrapposizioni e situazioni anomale».
Discussione chiusa, dunque? In realtà non troppo, perché dietro all’ipotesi di razionalizzare la materia ed eliminare le sovrapposizioni si cela in realtà una diversa – e pericolosa – idea della natura della pensione di reversibilità. Il principio sotteso ai progetti governativi, infatti, sarebbe quello di limitare fortemente o addirittura eliminare la reversibilità al coniuge superstite, superata una certa soglia Isee, l’indicatore della situazione economica del nucleo. Già oggi la percentuale di pensione spettante ai superstiti varia in ragione del loro numero e del reddito, ma se si prende a riferimento l’Isee
entrerebbero in gioco anche i patrimoni e tutto l’insieme dei beni posseduti. Non sarebbe così improbabile, dunque, il caso di una vedova senza reddito che, per il solo fatto di possedere un immobile di un certo valore, si vedesse negato l’assegno di reversibilità. Poco importerebbero i contributi versati dal coniuge deceduto, nulla il progetto di vita comune, il messaggio dello Stato alla vedova sarebbe chiaro: vendi la casa e trovati un lavoro. La pensione di reversibilità, è bene ricordarlo, non è però una gentile concessione e neppure una misura assistenziale, come tale da modulare in base alle congiunture economiche o da riservare solo ad alcune fasce di popolazione.
È invece un istituto previdenziale che, non solo corrisponde a una contribuzione (di almeno 15 anni), ma realizza una delle rare tutele per la famiglia in base agli articoli 29 e 31 della Costituzione. La sua funzione assicurativa, infatti, permette ai coniugi di pianificare ed eventualmente differenziare i ruoli familiari, rende un poco più libera la scelta del lavoro di cura non retribuito da parte di uno dei due genitori. Un compito, quello educativo, che la società si ostina a non valorizzare nonostante ne goda benefici e risparmi indotti. Pensare che sia sufficiente, per vedove e orfani, essere poco al di sopra di un livello minimo di patrimonio per vedere azzerato tutto questo avrebbe un impatto esiziale non solo sui singoli nuclei, ma sul nostro modello sociale, obbligando tutti e tutte a costruirsi comunque un futuro lavorativo solido e ben retribuito al di fuori della famiglia. Costretti dall’idea, cara al mercato, che ognuno deve bastare a se stesso. Senza libertà di scelta, senza legami.