«Chi siamo noi per giudicare?». Dinanzi a questo nuovo tsunami del doping che si è abbattuto su Alex Schwazer le uniche parole che ci soccorrono sono quelle di papa Francesco. Quattro anni dopo il tragico scivolone dell’Epo alle Olimpiadi di Londra Alex è di nuovo alla sbarra. Si deve difendere dall’accusa di un «testosterone undici volte sopra alla norma». Una mostruosità se venisse confermata. E il “se” nel suo percorso sportivo ed esistenziale purtroppo è la norma. La notizia della possibile recidiva è un tonfo al cuore, un ritorno nella palude del passato recente dove con sé Schwazer la “prima volta” trascinò a fondo anche la ex fidanzata, Carolina Kostner. Assieme a lei ci siamo sentiti traditi come innamorati dello sport pulito, memori di quell’impresa epica compiuta da Schwazer nella marcia olimpica di Pechino 2008. Sceso dal podio divenne il nostro eroe nazionale quando emozionato e sincero disse: «Non sono contento perché ho vinto, ma ho vinto perché sono contento». Quella gioia in realtà poi abbiamo scoperto che era la maschera della solitudine del campione. Uno stillicidio che ha pagato con una dipendenza morbosa dall’aiutino farmacologico, l’Epo. Per l’atleta-baro, i panni di cui si è vestito l’angelo biondo di Racines, quella è una delle migliaia di sostanze che gli hanno fatto imboccare la scorciatoia, la via più breve ma illecita per raggiungere il successo. Però – sapevamo fino a ieri – si trattava della prima vita di Alex: quella dell’ardita ascesa olimpica e la conseguente scellerata discesa agli inferi con tanto di condanna e ripudio popolare. Delle lacrime e sangue degli estenuanti allenamenti che lo avevano reso assai poco umano erano rimaste solo le lacrime di un
j’accuse in mondovisione. Il pianto a dirotto e il senso di distruzione interiore di Londra 2012 a noi era arrivato come la prova tangibile del pentimento con la richiesta cristiana del perdono. La scelta di ricominciare da zero, di ripulirsi e di riprendere il filo del discorso interrotto andando ad allenarsi a Roma con un paladino dell’antidoping come il professore Sandro Donati l’abbiamo vista come la versione corretta e aggiornata della parabola del “figliol prodigo”. L’abbraccio con il suo salvatore Donati al traguardo delle Terme di Caracalla dopo il ritorno trionfale – in scioltezza – nella 50 km di marcia a squadre e il pass per le Olimpiadi di Rio, era il degno finale di una splendida fiaba condivisa. La dignità ritrovata dell’uomo Schwazer attraverso la riscoperta dell’impegno quotidiano e dell’umile sacrificio. Una storia a lieto fine che noi di
Avvenire abbiamo letto e riletto con gli occhi della coscienza affidandoci alla difesa d’ufficio di scrittori: Ferdinando Camon e Alberto Caprotti (gli dedica un capitolo nel suo
Giochi d’amore). Schwazer sulle nostre colonne ha ricevuto, in tempi meno sospetti, la piena assoluzione del consulente ecclesiastico nazionale del Centro Sportivo Italiano don Alessio Albertini e del nostro cappellano olimpico don Mario Lusek. Appena un mese fa don Lusek ricordava in merito alla passata vicenda di Schwazer che «una persona non è solo la somma dei propri errori... Il doping è un fallimento, è una sconfitta, ma da lì si può ripartire». Ecco, il problema: in questo momento noi non sappiamo da dove ripartire. I venti della discordia alimentano la classica macchina del fango. Così dalla condanna certa per l’atleta, che direbbe addio alle Olimpiadi e all’atletica, si passa al sospetto della manipolazione delle provette, fino all’intrigo internazionale, magari ordito dai russi che non hanno accettato l’esclusione dei loro atleti da Rio 2016. Il verdetto è fissato per il 5 luglio, il giorno delle controanalisi. A quel punto sapremo se Schwazer è la vittima sacrificale dell’eterno sistema perverso e dopato o un povero diavolo che continua a perseverare nell’errore. Ma fino ad allora, chi di noi può giudicare?