Caro direttore,
rincorrere un’astratta e irrealizzabile "grande riforma" non aderendo alla proposta del presidente Letta di una riforma costituzionale con una procedura più veloce di quella prevista dall’art. 138, sarebbe non solo un’altra occasione sprecata dopo 30 anni di dibattiti sulle riforme, ma anche un modo ulteriore per dimostrare l’impossibilità che il "potere costituito" si faccia "costituente". Riduzione del numero dei parlamentari, superamento dell’attuale bicameralismo con la creazione di un Senato federale, revisione della forma di governo, sono argomenti maturi nel dibattito politico-culturale. Certo, questa non è la "grande riforma". Il mandato che verrà conferito al "Comitato dei 20+20" non comprende questioni fondamentali come la Giustizia né interventi in tema di diritti civili ed economico-sociali; non modificherà l’assetto delle Regioni, sulle cui competenze, organizzazione ed efficacia bisognerebbe invece riflettere, ma sarà comunque una risposta alla necessità di ridisegnare il "vestito" costituzionale del Paese. Rimangono i dubbi di costituzionalità sulla legge elettorale in vigore: non basta prevedere una soglia per il premio di maggioranza, occorre uniformare lo sbarramento d’ingresso tra Camera e Senato. È necessario ridare agli elettori il potere di scegliere i candidati. Le soluzioni possono essere diverse, ma l’obiettivo di ricreare un rapporto fiduciario tra eletto ed elettore va perseguito. Questo è quello che si può impostare nei prossimi mesi e già sarebbe un modo per dire che questo governo "eccezionale" non è passato invano. Che abbiamo ricomposto questa democrazia frammentata che rischia di rendere "normale" ciò che dovrebbe essere "eccezionale". Ciò vale anche per le coalizioni che devono e dovranno governare il Paese. L’importante è che la discussione nel "comitato dei 40" non smetta di ascoltare il Paese reale. C’è troppo "conservatorismo" trasversale, troppo minimalismo interessato. Non si può, in un Paese in cui la carenza di legittimazione non ha eguali nell’Occidente democratico, agitare lo spauracchio dell’autoritarismo tutte le volte che qualcuno propone una forma di governo sul modello semipresidenziale alla francese o l’elezione diretta del premier. Come se in Italia non eleggessimo già da anni in modo diretto sindaci e presidenti di Provincia e di Regione. Personalmente preferisco l’elezione diretta del premier, in una gara tra i capi delle coalizioni contrapposte, con riparto dei seggi su base proporzionale e premio di maggioranza, con potere di sfiducia del Parlamento, ma al di là delle tecnicalità che dipendono anche da altri elementi (neocentralismo o Repubblica delle autonomie locali?), i tempi sono più che maturi, a mio avviso, per affidare agli elettori la scelta di chi ha il compito di guidare il governo del Paese. Ciò non significa che i partiti, a cominciare da Scelta Civica per l’Italia, non debbano rafforzare nell’opinione pubblica la propria attività politica per evidenziare con quale proposta programmatica ci si intende presentare ai prossimi appuntamenti elettorali. In democrazia distinguersi è un dovere, ancora prima che una necessità, per chi fa del riformismo non solo una affermazione astratta ma l’essenza della propria identità.
Gianluca Susta, capogruppo Scelta Civica al Senato
Diciamo, caro senatore Susta, che... sfonda una porta aperta. Ma, come tutti gli altri lettori di "Avvenire", lei sa bene che condivido lo spirito del pubblico impegno che ribadisce qui a fianco, da capogruppo al Senato di una delle tre forze parlamentari che sostengono il Governo Letta. Ha proprio ragione: «al di là delle tecnicalità», c’è da riavvicinare il mondo politico e istituzionale al Paese reale, restituendo agli elettori una parola decisiva nella scelta di chi li rappresenta e li governa. La soluzione sta anche nell’eleggere direttamente il capo del governo nazionale? È ben possibile. E comunque non è affatto uno scandalo – non ho difficoltà a dirlo ancora una volta – che si ipotizzi di applicare anche al governo nazionale del Paese un metodo democratico che è già utilizzato a livello locale per governare tutte le articolazioni amministrative della Repubblica (dalle Circoscrizioni dei Comuni più grandi sino alle Regioni). Personalmente ho sempre sostenuto la bontà dell’assetto istituzionale che ha radicato e fatto crescere la democrazia italiana, che era – e, formalmente, è ancora – basato sulla centralità del ruolo del Parlamento repubblicano. Ma in questi anni di "deriva immobile" ho visto quella centralità svuotarsi e svanire sempre più, senza essere sostituita da nulla di coerente e saldo. Il Parlamento appare semiparalizzato persino in una delle sua potestà principali: la produzione legislativa di propria iniziativa. Non ci possiamo permettere di continuare su questa rotta. Serve un gran lavoro riequilibratore e ri-costituente. Sono più che mai convinto, infatti, che nella vagheggiata Terza Repubblica non possiamo finirci, poco a poco, per caso, per forzature e per disperazione. La stagione eccezionale della "larga intesa" non va sprecata, ma è un’occasione da sfruttare con saggezza e lungimiranza. Auguri, caro presidente, di condurre assieme a tutti i parlamentari di maggioranza e di opposizione un lavoro che, anche su questo fronte, sia buono ed efficace.