il direttore risponde Gentile direttore, è la sera del Venerdì santo. Partecipo, in un paesetto arroccato tra le colline dell’Abruzzo teramano, alla processione del Cristo morto. In basso, lontani, una miriade di punti luminosi rivelano la presenza della città capoluogo. Sembra la metafora dell’opposizione di due mondi. La città rappresenta la dimensione della cultura disincantata, vitaiola. Il paese rurale, invece, il luogo del senso religioso. La processione si snoda, di villaggio in villaggio, seguendo una drammaturgia prestabilita: la Madonna che parte dalla chiesa centrale per raggiungere Gesù in una chiesetta campestre e poi tornare, insieme con lui, verso la chiesa principale. La partecipazione della gente è compatta, passionale. Colpisce la fede di questo popolo: maestosa nella sua semplicità. Sembra non appartenere alla cultura agnostica del nostro tempo. Ho osservato gli anziani: scommetto che non tutti partecipano alla Messa domenicale, ma portano il Cristo, fanno il segno di croce di fronte all’immagine di san Gabriele e conservano in fondo al cuore una nascosta tenerezza verso la Madonna. Ho scrutato il volto dei giovani: profondamente convinti dell’importanza di ciò che stavano facendo. Anch’essi cantavano gli inni appresi dall’infanzia. Donne, uomini, giovani… È su questo strato profondo che poggia la cultura degli infiniti piccoli e medi centri della nostra penisola. Un bambino di dieci anni che vive e partecipa, in una notte di primavera, a tutto questo ne rimane segnato. Per lui, quel Dio giacente nel feretro, vittima del male che scaturisce dal cuore umano, rimarrà per sempre un centro fondamentale del suo universo simbolico. Forse non arriverà mai alle sottigliezze che appesantiscono e inaridiscono la fede dei dotti, ma andrà dritto all’essenziale, al cuore del mistero: un Dio che ama senza misura con tutto ciò che ne consegue.
Luciano Verdone Teramo C aro direttore «Si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono» (Mt 26, 50). I fatti di duemila anni fa nei fatti di oggi. Quegli istanti carichi di tensione bruciante, negli istanti di questi giorni. Allora arrivarono con spade e bastoni, oggi arrivano con le bombe, ma il movente è sempre lo stesso: il potere. Togliere Dio dal suo posto per sostituirlo con l’io. L’esito di questo modo di vivere, però, è l’autodistruzione, di Giuda come quella dei terroristi. Poiché l’uomo difficilmente impara dai propri errori, Cristo ha spiazzato tutti: si è consegnato. Ha pagato lui, ci ha rimesso del suo, ha versato il proprio sangue, perché ogni uomo fosse costretto a fare i conti con una nuova arma: la misericordia. Tutto il buio di quella notte non è bastato a spegnerla. Tutto il tradimento di quella sera non è bastato a metterla in fuga. Tutta la violenza di quel bacio avvelenato non è bastata a frenarla. La misericordia, da quel momento, è l’unica risposta realmente efficace, vero antidoto ai nostri discorsi vuoti e sentimentali persino di fronte ai fatti di Bruxelles di questi giorni. «E, uscito fuori, pianse amaramente». A Pietro è bastato poco. La commozione e l’affetto sincero per il suo Signore, scoppiati in quel pianto, hanno soppiantato in un istante le spade e i bastoni, spalancando la strada alla misericordia. Anche oggi a noi basterebbe poco, solo il riconoscimento umile e sincero che da soli non facciamo neanche un passo. Per questo occorre sostenerci, occorre seguire passo passo il cammino di quel popolo che «in Lui ha trovato misericordia».
don Simone Riva Cinisello Balsamo (Mi) Sono due lettori attenti e appassionati, il professor Verdone e don Riva. Mi regalano spesso riflessioni stimolanti, che mi accompagnano e che, ogni tanto, condivido con gli altri lettori. Così anche oggi, in questa Pasqua preceduta da terribili gesti di odio assassino e da una lunga delusione che molti chiamano crisi economica e altri, come me, riconoscono crisi generata dall’indifferenza di tanti (ma non di tutti) ai valori che danno base e senso alla nostra vita personale e comunitaria. Una Pasqua che qualcuno – anche credente – pensa, descrive e vive come ormai deserta di fedeltà e di speranza. Non è così. Per questo accolgo come dono prezioso e utile le parole di un uomo di scuola profondo e innamorato della propria terra d’Abruzzo e di un uomo di Dio saldamente e felicemente impegnato tra la sua gente nella “vigna” di Lombardia. Hanno ragione. C’è da arare le nostre città come campi, per ridare loro il cielo e la smisurata misura di Dio Amore. E la misericordia, capace di capovolgere in ogni singola vita e in ogni incontro le logiche del mondo e di orientare il cammino di un popolo, è davvero antidoto ai tradimenti e alla prepotenza del male. Hanno ragione. La ragione dell’augurio che ci rinnoviamo, cari amici, anche in questa Pasqua di Resurrezione. © RIPRODUZIONE RISERVATA