domenica 21 luglio 2024
Il medico Gianrenato Riccioni lavorava in Uganda per Avsi con la moglie. Partì su sollecitazione dell’ambasciatore italiano. «Mettemmo in salvo 800 piccoli, traumatizzati»
La mensa dell'orfanatrofio di Nyanza dei rogazionisti

La mensa dell'orfanatrofio di Nyanza dei rogazionisti - .

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«Non era una normale guerra, in Ruanda, era l’inferno. Quelli che fino a poco prima erano stati amici, parenti, addirittura sposi, ora venivano massacrati senza distinzione, con machete, bastoni chiodati, martelli. Perfino le chiese dove i Tutsi si erano rifugiati per sfuggire agli Hutu avevano le pareti rosse di sangue, sembravano dipinte. In quel delirio ero stato chiamato a organizzare in qualche modo una presenza di pace e di ricostruzione… L’estate del 1994, trent’anni fa, segnò indelebilmente la mia vita». Gianrenato Riccioni, medico anestesista e rianimatore nato nelle Marche, classe 1956, in quegli anni viveva con la moglie Letizia, insegnante, e i loro tre bambini in Uganda, responsabile dei progetti di Avsi, organizzazione non governativa cattolica presente in 38 Paesi. « Il genocidio in Ruanda era iniziato il 6 aprile, il giorno stesso in cui era stato abbattuto l’aereo dell’allora presidente Habyarimana… Era stato tutto premeditato, addirittura dalla Cina erano stati importati centinaia di migliaia di machete, arma rudimentale e feroce, ma anche economica… A dare inizio alla carneficina fu la radio nazionale, che incitò a seviziare e uccidere “gli scarafaggi Tutsi”. In un’allucinazione collettiva, la popolazione obbedì. In questo contesto, immaginate però un manipolo di volontari, armati solo di tanta fede e di speranza, che accettavano di entrare in Ruanda per riportare una goccia di umanità in quell’oceano di male. Avevo 38 anni, e tanta paura, ma dissi di sì e reclutai chi mi potesse seguire».

Come era arrivato in Africa?

Colpa di mia moglie! Eravamo ancora fidanzati quando in una testimonianza ascoltò il medico Enrico Guffanti e sua moglie Giovanna, da anni impegnati in Africa, e il comboniano padre Pietro Tiboni. Entusiasta mi disse che cercavano medici e insegnanti. Io chiarii subito che ammiravo molto le persone di quel tipo ma che non ci pensavo minimamente. Poco dopo il matrimonio toccò a me ascoltare Enrico e Giovanna e rimasi folgorato, non dall’Africa ma dalla loro umanità, erano ciò che io avrei voluto essere. Mesi dopo eravamo in Uganda con loro. I nostri tre figli alla nascita ebbero doppio nome: Simone Otìm, “nato in terra lontana”, Eleonora Abèr, “pulchra, bella”, Giacomo Kizito, il nome del più giovane martire ugandese. A Kampala gli italiani erano numerosi e alcuni nostri amici fondarono una scuola per i figli dei medici missionari, dei funzionari delle ong, dei dipendenti dell’ambasciata, così Letizia da docente di matematica si trovò a fare la preside, l’insegnante di tutte le materie ginnastica compresa, le pulizie: era una situazione fantastica.

Ma dal vicino Ruanda arrivò l’onda nera del genocidio...

L’ambasciatore italiano in Uganda copriva anche l’area del Ruanda e nell’aprile del 1994 convocò le ong presenti sul territorio per valutare cosa potessimo fare in quel mattatoio a cielo aperto. Noi in Uganda avevamo percepito che qualcosa stesse accadendo perché sparivano i nostri colleghi e amici ugandesi di origine ruandese: andavano tutti ad arruolarsi tra i Tutsi per difendere la loro gente. L’ambasciatore mi chiese di riflettere su una mia presenza in Ruanda, ma per la seconda volta chiarii con Letizia che non ci pensavo nemmeno: già in Uganda avevo fatto il mio passo missionario, che era stato di una bellezza straordinaria, ma mi bastava e avanzava. Letizia mi guardò paziente, padre Tiboni mi mise in crisi, e poco dopo ero al volante: sette ore di auto per entrare in Ruanda. Nella capitale Kigali mi aspettava l’uomo più straordinario che io abbia mai incon-trato, il console Pierantonio Costa.

Un altro incontro che in quell’estate le cambiò la vita.

Mi portò a vedere ciò che stava accadendo, affinché io potessi costruire un progetto fattibile di presenza. Ricor-do ovunque i corpi di persone uccise all’arma bianca, l’aria impregnata di putrefazione, avevamo paura, non c’era una zona franca in quella follia sanguinaria. Costa mi condusse fuori Kigali nelle baracche di fango sulle colline, dove si erano rifugiati i Tutsi, e là dentro vidi i sopravvissuti amputati col machete, gli occhi impazziti di orrore. Soprattutto però mi impressionò l’orfanotrofio dei padri Rogazionisti a Nyanza: lì erano stati raccolti 800 bambini tutti dai 2 anni in su, perché sotto i 2 anni erano morti, uccisi o dagli Hutu o dalla diarrea. La cosa che mi colpì fu il totale silenzio che sentimmo dall’esterno. Come potevano esserci lì dentro centinaia di bambini? Erano hutu e tutsi insieme, chi morente, chi senza più gli arti, terrorizzati per ciò che avevano visto. Molti erano scappati ai loro stessi parenti – zii, cugini, persino padri e fratelli – componenti di quel 40% di famiglie miste hutu e tutsi che avevano preso a massacrarsi. Fu surreale vedere quei piccoli corpi infetti e sulla parete il poster di Totò Schillaci, il campione dei Mondiali del ’90. Costa era andato a Nyanza per portare in salvo i padri Rogazionisti, tra i quali padre Tiziano Pegorari cui gli Hutu avevano promesso la decapitazione, ma questi non se ne volevano andare. Per salvare gli 800 bambini dalla strage degli innocenti, il console Costa circondò l’orfanotrofio con bandiere italiane e la scritta “Consolato d’Italia”. Era un’impresa geniale e disperata, ma funzionò.

Lei come organizzò la presenza dei vostri volontari?

Non era facile trovare persone disposte a venire in quel macello e ricostruire da zero l’umanità perduta, eppure la luce si fa strada anche nel buio più nero. All’inizio il gruppo era costituito da due pediatri, uno psichiatra, un insegnante e un assistente sociale. Pochissimi, ma sufficienti per ridare a quei bambini l’idea che gli adulti non erano tutti impazziti e che si poteva ricominciare a vivere. Ricordo il giorno in cui per la prima volta nell’orfanotrofio sentimmo cantare una bambina, poi pian piano i più grandi iniziarono a prendersi cura dei più piccoli, era il segno che la speranza non era morta. Lo psichiatra, Giovanni Galli, andava a recuperare i piccolini aggrappati sugli alberi, dove si erano rifugiati. Quello che riuscì a fare Giovanni fu impagabile, ancora oggi quei bambini, diventati adulti, si ricordano di lui... E poi chiamai dall’Uganda l’amico Marco Sala, fisioterapista con cui da anni portavamo avanti un progetto per le persone amputate e per la produzione di protesi, ora serviva in Ruanda… Ma il vero miracolo fu il fatto che si unirono a noi otto ugandesi-ruandesi, hutu e tutsi insieme! La loro presenza fu la cosa più bella del mondo, voleva dire che la pace era ancora possibile e che un cammino di fede può sovvertire anche un delirio come quello. Partimmo con quattro fuoristrada con scritto “Avsi” in ogni lato, perché – dissi – se ci vogliono sparare devono sapere chi siamo.

Oltre agli 800 bambini, quale fu l’impresa più dura?

Il fiume Akagera stava portando decine di migliaia di cadaveri in putrefazione nel Lago Vittoria, in Uganda, così il ministro della Salute ugandese chiese alle ong di recuperare i corpi lungo migliaia di chilometri. In totale furono raccolti 45mila corpi e chissà quanti non furono mai trovati. A noi di Avsi toccò il distretto di Mpigi: tirammo su duemila salme, le seppellimmo, gettammo la calce viva. Per mesi a Kampala abbiamo faticato a bere l’acqua perché sapevamo che veniva dal Lago Vittoria. Purtroppo ci fu impossibile identificare quei morti, invece un lavoro importante fu l’identificazione di centinaia di bambini orfani, per riunirli a qualche superstite adulto. Non fu facile, anche perché non sempre ridarli alle famiglie era la scelta migliore, avevano visto i parenti uccidersi tra loro.

Come iniziò, così terminò tutto...

Ufficialmente il genocidio finì in questi giorni, a metà luglio. In realtà dopo l’onda d’urto che lasciò a terra 800mila morti in cento giorni, iniziava la vera emergenza, bisognava ricostruire la psiche dei vivi, riaffacciarsi all’idea che si poteva tornare a vivere. E proprio in questi giorni ci rendemmo davvero conto di come noi siamo strumenti nelle mani di Dio, se no in una situzione del genere con le tue sole forze non ce la puoi fare. L’estate del ’94 mi ha segnato per sempre non per la sua violenza, ma per quegli otto uomini e donne hutu e tutsi, la novità dentro la tragedia: era stato chiesto a me di rifondare un’umanità, e da loro percepivo che cosa può fare la carità in atto, toccavo con mano il segno tangibile di un amore fuori da ogni logica umana e da ogni previsione, l’unico capace di generare la speranza.

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