Alessandra Pelagatti - Archivio Pelagatti
«La mia vita è stata a lungo un ring, dove il male e il bene si sono affrontati per vent’anni. In mezzo c’ero io, con i miei disperati tentativi di risalire e le cadute sempre più in basso. Fino al giorno in cui il secondo aborto volontario mi ha messa ko e io, atea convinta e bestemmiatrice, mi sono tolta la vita. O almeno ci ho provato, perché l’amore di Dio ha vinto in un giorno d’agosto...». La vita di Alessandra Pelagatti, attrice romana, sembra tratta da un film, ma colpisce per la schiettezza con cui lei accetta di raccontarsi «con la speranza di parlare al cuore di tante donne», sorride, «io non voglio convincere nessuno! Semmai desidero che la mia sofferenza possa essere d’aiuto ad altri, come io devo la vita a persone che, magari inconsapevoli, mi hanno salvata».
Partiamo dall’inizio. L’aborto entra molto presto nella sua vita.
Avevo 5 anni quando i miei divorziarono e io sono cresciuta tra una madre ansiosa di libertà e un padre lontano, così iniziai anch’io ad apprezzare quella “libertà”: che bello uscire la sera fino a tardi senza divieti, che bello andare in vacanza con il mio ragazzo a 14 anni, mentre le antiquate mamme delle mie amiche non permettevano nulla. A 15 anni, presa dal panico per una possibile gravidanza, parlai con mia mamma, che mi aiutò a prendere la pillola del giorno dopo. Pericolo rientrato, pensammo... A 18 anni avevo un altro fidanzato, nonostante le apparenze non ero una ragazza facile, ho sempre avuto storie lunghe e serie. Fatto sta che rimasi incinta e mi rivolsi di nuovo a mia madre, la quale non ebbe dubbi, ero troppo giovane per “rovinarmi la vita con un bambino”, c’era tempo per “queste cose”, sapeva lei cos’era la “cosa giusta”. Alle mie perplessità, il suo amico ginecologo mi spiegò che prima dei tre mesi “non è una vita”. Il mio ragazzo pronunciò una sola frase: “Preferisco di no”, anche per lui c’era tempo, “ora no”. Innaffiando di lacrime i libri dell’esame di maturità, presi l’appuntamento in ospedale e lì scesi nel primo girone infernale.
Che cosa avvenne in quel reparto?
Mi diedero un “ovulo preparatorio”, nessuno mi spiegò come funzionasse. Poi attesi ore in uno stanzone con altre sette donne, alcune avvezze a ciò che ci stava accadendo, tant’è che giocavano a carte e parlavano delle “volte precedenti”. Ma io e un’altra ragazzina ci fissavamo, sul volto una richiesta di aiuto che non sarebbe mai arrivato. Ho pensato spesso a lei in questi anni. Nel frattempo ci venivano a prendere una dopo l’altra per la sala operatoria, si usciva “in due” e si tornava “sole”. Quando toccò a lei, mi guardò disperata mentre la portavano via. Poi fu il mio turno e in un lampo di lucidità dissi che non volevo più farlo, ma lì arrivò il macigno: il ginecologo mi disse che l’ovulo era abortivo e se fossi tornata a casa avrei abortito lì. Per tre anni non riuscii più a fare l’amore e la nostra storia finì. Dopo qualche anno mi innamorai di nuovo...
Ma di nuovo il colpo sul ring.
Era un ottimo ragazzo anche lui. Rimasi subito incinta e questa volta, dopo la domanda di rito a lui e la consueta risposta – “preferisco di no, non ora” – senza bisogno di consultarmi con mia madre sapevo già cosa fare, stesso ospedale, stesso ginecologo. Il mio fidanzato mi stava vicino, addolorato per ciò che stavamo facendo, io ero fiera dell’utero che era “mio” e che avevo imparato così bene a “gestirmi io”. Ma qui iniziò il baratro, dopo l’aborto mi sentii vuota, rabbiosa, provavo odio per lui, per mia madre, per me. A 24 anni mi sdraiai sul letto e non mi alzai più per 13 anni. Chiesi aiuto a psichiatri, psicofarmaci, libri new age, buddismo, ricerca spasmodica di un senso, ho immaginato mille volte la mia morte. Perché non mi suicidavo? “Se lo faccio e non mi riesce?” – mi chiedevo –. “E se esistesse davvero questo Dio? Se per l’eternità mi trovassi in una sofferenza peggiore della mia?”. Quanta paura di morire, quanta paura di vivere... Intanto cresceva in me un totale rispetto per la vita, diventai vegetariana per non uccidere esseri viventi, è pazzesco come la coscienza ci parli, ma solo dopo anni misi in relazione tutto questo con l’aborto.
L'amore di Alessandra per gli animali cerca di riempire il vuoto incolmabile - Archivio Pelagatti
La carriera teatrale a 29 anni le restituì la passione…
Il teatro e i gatti. Ma allora erano tentativi di riempire un vuoto che restava inesauribile. Il teatro però mi fece incontrare Massimo, oggi mio marito, che era ateo come me ma strumento di Dio per guarirmi e salvarmi. Finalmente desideravo crearmi una famiglia e a 35 anni ero pronta ad accogliere il bambino che, ne ero certa, sarebbe arrivato subito come sempre. Invece non arrivò mai. Il rancore era incontenibile, prendevo a pugni il mio ventre vuoto, tanto che Massimo mi propose di andare ad Assisi sulla tomba di San Francesco. Lo seguii al culmine dell’indifferenza e con aria di sufficienza guardai lui che per la prima volta in vita sua si inginocchiava supplicando di aiutarmi. Ogni donna incinta che incontravo per strada era una spietata morsa al cuore, dov’erano i miei due bambini? Divenni talmente aggressiva con gli altri che mi chiusi in casa, solo la figura di San Francesco continuava ad attrarmi per simpatia, anche lui amava gli animali, anche lui sentiva che nella vita potere e ricchezze non valgono nulla... Massimo mi regalò una Bibbia, il Vecchio Testamento lo abbandonai quasi subito, ma il Vangelo misteriosamente mi affascinava per lo splendore delle parole di quel Cristo che non conoscevo. Ma più intravedevo il “paradiso” e più l’“inferno” interiore mi tirava giù.
Ma una serie di persone dovevano ancora incontrarla fare un pezzetto di strada con lei…
Persone positive o negative, ringrazio tutte, perché tutte hanno avuto il loro ruolo di salvezza: don M, prete distratto e frettoloso da cui scappai, quindi padre Alessandro, che allo Speco di San Francesco a Narni mi fece intuire che l’amore di Dio consente a tutti di ripartire da zero, da lì don Antonio, che a Roma affrontò quella che gli annunciai come “una confessione lunga 20 anni”: mi ricordava Robert De Niro nei panni del prete di “The sleepers”, tra sigarette e qualche parolaccia mi strapazzò, “ok, hai fatto un sacco di fesserie ma sei pentita e a Dio non interessa più il passato, vuole che rendi gloria a Lui con la tua vita, adesso, oggi!”. Tutto chiaro, in teoria, ma se mi perdonava Lui non mi perdonavo io, il guaio restava, i rimpianti venivano fuori uno dopo l’altro come foulard annodati tra loro dal cappello del prestigiatore. Per risalire mi mancava ancora un ultimo gradino... in giù. Il 30 aprile del 2010 feci quello che in tanti anni avevo rimandato: quante volte mi ero trovata a fissare quel mucchietto di “speranza di fine pena”: ingoiai quelle pillole. Mi trovò Massimo. Fui salvata e da allora festeggio il 1° maggio come il mio secondo compleanno.
Finalmente la luce?
“Per caso” un’amica mi parlò di Medjugorje (feci finta di sapere cosa fosse), era in partenza per un pellegrinaggio, poi vidi anche un servizio in tivù e io sentii come acqua fresca il bisogno di rispolverare il Padre Nostro e l’Ave Maria che solo mia nonna da piccola mi aveva insegnato: tornarono fuori parola per parola. All’ultimo si liberò un posto in pullman e io senza alcun dubbio andai a vendere tutto il mio oro, vecchie catenine, regalini dei fidanzati: stavano chiusi da anni in un cassetto e permettermi di fare un viaggio così importante mi sembrava il miglior modo per continuare a far vivere l’amore che quegli oggetti rappresentavano. Oggi sia catenine che fidanzati li ricordo con profonda gratitudine. Sempre “per caso” la partenza fu nella notte tra 1 e 2 agosto, giorno del “Perdono d’Assisi”.
Il perdono, la sua eterna ricerca…
Feci la Via Crucis di notte sul monte Križevac e arrivammo all’alba all’enorme crocefisso che benedice tutta la vallata, mentre il sole si affacciava inondandoci di luce e calore. Tre ore di salita, in preghiera, io! La mia fatica non fu fisica, fu fare i conti con i Rosari, alcuni giorni ero satura e mi chiudevo in camera, ma la sensazione di pace la respiravo con stupore. Soprattutto mi meravigliava quella folla multicolore, di pelle, di bandiere, di cultura e di lingue. Durante le Messe si sollevava un boato di preghiere comuni, ognuno nella sua lingua, dicevano la stessa cosa! E poi le testimonianze: quante esperienze di “morti” senza Dio si erano tramutate in gioia che trapelava dai loro occhi. Volevo anch’io quella rinascita in Cristo e il 6 agosto avvenne.
Cosa accadde il 6 agosto di preciso?
Prima di partire dovevamo scrivere in un foglietto le nostre richieste a Maria. Mi sembrava una cosa ridicola, ma iniziai: Cara Maria… Poi mi bloccai, cosa potevo chiedere? Un bambino? Di non stare più male come un cane? Alla fine anziché chiedere mi venne di offrire io qualcosa: Non sono io che devo chiedere una cosa a te, semmai devo io farti un dono, ti prometto che al mio ritorno proverò a fare ciò che mi chiedi. Corsi da sola sopra la collina delle apparizioni e nascosi tra le rocce la mia lettera tutta accartocciata. E per la prima volta mi inginocchiai (altra cosa che prima consideravo ridicola). Il giorno dopo eravamo al Santo di Padova e lì frate Giorgio, senza conoscermi, mi disse parole che mi aprirono a un amore incommensurabile, caldo e accogliente, in un istante mi sentii perdonata.
Alessandra con la mamma - Archivio Pelagatti
Oggi lei contagia gli altri con la sua serenità.
Il cammino è ancora pieno di buche nelle quali inciampo, come tutti, ma Gesù mi rialza sempre. Tornai a casa con tanto amore nel cuore che la voglia di restituirlo traboccava. Anche a mio padre e soprattutto a mia madre: l’ho abbracciata per dirle che non importava più e per proteggerla da quella “colpa” di cui forse oggi si è resa conto. Inoltre quando mi chiamano a testimoniare racconto senza alibi la mia storia, affinché altre ragazzine come me non debbano cadere nello stesso inganno dell’aborto. Io ho avuto il privilegio di essere stata madre di Andrea, che per tre mesi è vissuto nel mio grembo, e di Camilla, che è stata con me per due mesi. Non so se fossero effettivamente maschio e femmina, ma gli ho dato un nome per chiedere il loro perdono e dire loro che li amo. Prego Maria di stringerli nel suo abbraccio materno, dando loro l’amore che si meritano e che io non sono stata in grado di dare. Ma in fondo a ogni sentiero vedo sempre la luce e Gesù che mi tende la mano: come potrebbe più farmi paura qualcosa? Il 13 maggio del 2017 io e Massimo ci siamo sposati davanti al Signore... “per caso” nel centenario della Madonna di Fatima.