È facile essere d’accordo con la politica di liberalizzazioni che è
stata avviata. Sono infatti molte le ragioni che portano tanti ad avere
uno sguardo fiducioso, generoso e simpatetico nei confronti dell’operato
del Governo Monti, comprese le liberalizzazioni, necessarie in
un’Italia bloccata da troppi interessi di parte che finiscono per
diventare «male comune». Ma proprio per questo sguardo complessivo
positivo è importante portare l’attenzione su una domanda di fondo, che
riprende discorsi già impostati su queste pagine: quale idea di modello
economico e sociale per l’Italia di oggi e di domani ha in mente questo
governo?
Liberalizzare un sistema economico significa, in estrema sintesi,
aumentare il peso del mercato all’interno della vita civile. L’Italia ha
sempre avuto meno mercato dei Paesi anglosassoni (Inghilterra e Usa in
particolare), perché il posto del mercato lo hanno occupato non solo uno
Stato spesso inefficiente e ipertrofico, ma anche la famiglia e le
comunità. È, infatti, questa terza dimensione, che possiamo chiamare
«società civile di tipo comunitario», che caratterizza il modello
italiano, e in un modo più marcato degli altri Paesi europei di cultura
latina. È, il nostro, un modello diverso dal capitalismo americano, ma
anche da quello dei Paesi scandinavi, poiché in questi due modelli la
dimensione comunitario-familiare è di fatto relegata nella sfera privata
delle persone, senza che le venga riconosciuta la natura di principio e
di ambito di carattere pubblico e politico. Nelle politiche economiche
che stiamo osservando, allo stato delle cose, non è purtroppo chiaro
quale sia la visione relativa a questa terza dimensione, che, giova
ripeterlo, è una colonna della nostra identità e storia, e che ha anche
importanti effetti economici. Anche se le categorie culturali per
"vedere" questa dimensione dell’Italia ci sono – ci sarebbero – si ha
come l’impressione che la cura che si sta approntando per il malato
Italia potrebbe essere applicata a qualsiasi altro Paese: dall’Argentina
alla Finlandia. Se invece si vedesse davvero questa terza dimensione,
ad esempio, si dovrebbero considerare diversamente le varie realtà del
cosiddetto Terzo Settore. Innanzitutto, si capirebbe che le cooperative o
le imprese sociali sono imprese a tutti gli effetti, poiché la
cosiddetta economia sociale o civile in Italia non ha la stessa funzione
– e, quindi, natura – del non-profit anglosassone.
Il Terzo Settore italiano ha essenzialmente una natura produttiva, non
redistributiva come nel modello filantropico-restitutivo degli Usa. In
Italia la cooperazione, la finanza etica, il commercio equo, il
variegato mondo dell’economia comunitaria è la fioritura moderna della
cultura civile che ha prodotto i Monti di Pietà nel Quattrocento, e poi
le casse rurali e di risparmio, e quindi la cooperazione di produzione,
rurale, di consumo. Oggi come ieri, l’economia civile è l’espressione
economica di questa terza dimensione civile-comunitaria del nostro
modello di sviluppo. Ma, di questi tempi, quando si sente parlare di
impresa è forte l’impressione che nel Governo, in Parlamento e sui
giornali ci sia chi ha in mente soltanto l’impresa capitalistica –
grande, media o piccola – e che si collochi nel mondo del "sociale" o
del "volontariato" quell’altra miriade di soggetti economici che pure
creano ricchezza, valore aggiunto e posti di lavoro (oggi più di un
milione), attingendo proprio alla nostra vocazione
comunitario-famigliare.
Occorre, invece, tenere ben presente che l’impresa tradizionale non
potrà più creare posti di lavoro come prima della crisi, né, tantomeno,
potrà farlo lo Stato. In simili momenti è stata la società civile che ha
inventato nuovi lavori e nuova ricchezza (si pensi, ancora, alla
cooperazione tra Ottocento e Novecento); qualcosa di simile dovrà
avvenire anche oggi, purché il Governo lo veda e agisca di conseguenza
anche sul piano fiscale.
È in questo contesto culturale ed economico più generale e profondo che
va anche inserita la valutazione della liberalizzazione dell’orario
degli esercizi commerciali.
Gli effetti di breve periodo di questa forma di liberalizzazione
(diversa dalle altre, ripeto, necessarie e opportune), possono forse
essere benèfici per i consumi e quindi per il Pil, anche se, dobbiamo
ricordarlo, uno stile di vita centrato sull’aumento dei consumi è la
malattia del nostro modello, non la cura. Ma ciò che è certo è che nel
medio periodo (3-5 anni) scompariranno tutti quei negozi a conduzione
famigliare che già soffrono da decenni, e che da domani non potranno
certo tenere il passo di chi ha forza e capitali per gestire personale
per turni "24h/7g". È il modello del grande-lontano-anonimo che prenderà
sempre più piede, come sta già accadendo nei Paesi anglosassoni. Ma il
piccolo-vicino-personale non è soltanto sinonimo di prezzi più alti, è
anche espressione di un modello economico-civile che fa parte del nostro
Dna borghigiano e cittadino, di città che si chiamano Offida e Lodi,
non Miami né San Francisco. E che fa sì, tra l’altro, che i centri
storici siano ancora (sebbene con fatica) abitati da persone e da
incontri e non solo da uffici, e che gli anziani possano trovare merci e
persone sottocasa.
Rendere possibile la vita sia alla grande distribuzione organizzata sia
al negozio a conduzione famigliare non è buonismo né nostalgia, ma è
questione di democrazia e di libertà, che vivono e si alimentano della
biodiversità, anche nelle forme di imprese e di negozi. Trovare un
negozio chiuso, magari la domenica, ci ricorda che il mercato è un pezzo
di vita, non tutta, che esistono dei limiti al commercio e al consumo,
che dietro quelle serrande ci sono non solo merci ma persone, e che i
tempi del mercato e del lavoro – come ancora una volta ci ha ricordato
lunedì il cardinale Bagnasco – vanno iscritti all’interno dei tempi del
vivere e della festa, e non viceversa.