Dopo mesi di aggressione all’Ucraina e di repressione per chi si oppone alla guerra nel Paese da cui è partita l’invasione, emerge il quadro di una società russa che sembra vivere travagli inediti. Un processo al quale chiunque abbia a cuore il futuro democratico di quel grande Paese dovrà guardare. Qualcosa da interpretare con serietà. Infatti, di pari passo con la controinformazione che il giornalismo e l’attivismo indipendente portano avanti fuori e dentro i confini russi, si può notare che la repressione ha prodotto alcuni effetti collaterali. Non solo esilio e diserzione di massa. Lo osservano personalità che hanno la possibilità di leggere la realtà fuori dal raggio della propaganda (sia essa putiniana o del mainstream occidentale) per cercare di cogliere gli umori di quella società. Tra loro ci sono Dimitri Muratov, Ekaterina Shulman politologa, Kirill Martynov direttore di “Novaya Gazeta Europa”, Grigory Yudin sociologo, Alexey Venediktov direttore Radio Eco di Mosca.
L’impatto del web, dei social network ma anche il solo cellulare che consente di condividere immagini e fatti in tempo reale, ha permesso di seminare un mai così ampio controcanto alla propaganda ufficiale, un attivismo individuale più o meno consapevole, sparso e disordinato ma articolato lungo i diversi fusi orari della grande Russia. Troppo presto per dire se si tratti di una trasformazione che porterà a nuovi scenari. Senza volere forzare paragoni, lo situazione non pare lontana da quella del ventennio fascista in Italia: esilio, emarginazione, carcere, tortura e uccisioni per oppositori, politici e intellettuali, mentre la maggioranza del popolo acclamava il duce. Quanti anni ci sono voluti per arrivare al Comitato di Liberazione Nazionale, alla Resistenza e poi alla Liberazione? Vale per la guerra di Putin all’Ucraina come per quella che Martynov ha definito «guerra al suo stesso popolo » da parte di Putin. Da mesi, la sufficienza con cui si è guardato a chi in Russia si oppone alla guerra e all’oppressione del sistema putiniano è qualcosa che ferisce e offende non solo gli oppositori russi.
Si tratta di due temi inscindibili. Nella migliore delle ipotesi, i resistenti nonviolenti russi vengono apostrofati come “sparuti” e “solitari”. Si dice: non sono organizzati, non cambieranno nulla. Si esprime disprezzo, considerandoli dei donchisciotte che non fermeranno i mulini della guerra. Ma a oscurarne e indebolirne la forza saremmo noi per primi se non ci impegnassimo nel vederli e farli sentire, moltiplicando anche da qui la loro visibilità.
Alcuni giorni fa a Ulan Ude c’è stata una manifestazione di donne contro la guerra. La maggioranza di loro è stata arrestata. È solo un esempio di proteste che ogni giorno si tengono in diversi angoli del Paese. In Occidente non trovano risalto. Forse perché disturbano un quadro che si vorrebbe lineare: una Russia dove Putin è il suo popolo, che per questo va sconfitto e punito col suo capo.
Un’alleanza con i semplici cittadini “resistenti” e con voci autorevoli come quella di Muratov è invece indispensabile. Il clima guerrafondaio ha schiacciato molti all’angolo, spingendoli ad assumere le parti dell’uno o dell’altro senza guardare più a fondo, nell’articolazione del quadro, nelle tante sfumature complesse e anche controverse che ogni conflitto cela in sé.
Per chi come il premio Nobel Muratov si batte da tempo e a viso aperto contro la repressione delle libertà in Russia – e ha visto tanti amici e colleghi giornalisti perseguitati e uccisi per avere fatto il proprio lavoro, indagando sulla corruzione e sulla guerre in Cecenia e in Siria – è forte la percezione di essere in una sorta di cul-de-sac, tra la repressione del regime e l’incomprensione e lo scetticismo di parte del proprio popolo e dell’opinione pubblica internazionale.
Nella sua recente “Lettera ai sostenitori”, Muratov affronta diversi punti dolenti e risponde alla domanda che dal 24 febbraio provocatoriamente viene fatta a lui e agli oppositori della “operazione militare speciale”: «Dove eravate in questi 8 anni quando bombardavano il Donbass?». Una domanda che può essere usata con visuali e un significato diverso in Occidente come in Russia e nel resto del mondo. Muratov dice: «Non c’è più da esitare nel rispondere a questa domanda, su dove siamo stati per otto anni. Noi non abbiamo partecipato a queste cose orribili, e non siamo stati noi a inventare bambini crocifissi a Slavyansk, e non abbiamo mandato noi i volontari a morire atrocemente con la benedizione dei pope…». Parlando ai suoi sostenitori, il premio Nobel scolpisce un invito a riflettere che vale pure per noi, che in Occidente abbiamo a cuore il suo destino e quello degli altri pacifisti e oppositori: «Interlocutori stranieri su Zoom mi hanno detto che sono preoccupati per Putin. Perché nessuno va messo all’angolo. Sono d’accordo. Tuttavia proviamo non solo a preoccuparci per quel qualcuno, ma anche a provare a far sopravvivere qualcun altro». Parole importanti, che ci chiamano in causa.