Caro Avvenire,
spesso in Tv si affrontano i problemi degli anziani e delle loro difficoltà economiche. Però ho notato, purtroppo, che non viene posta la dovuta attenzione a un problema che, secondo me, è ancora più importante delle piccole “elemosine” che di tanto in tanto lo Stato promette di elargire ai più bisognosi. Il primo vero problema per gli anziani è “sentirsi calpestati” nella propria dignità di esseri umani da una burocrazia che continua a rendere difficile la vita di chi è avanti con gli anni. Un esempio: non per tutti i vecchi è facile recarsi alla sede del Patronato; a questo bisogna aggiungere le ore di attesa per essere ricevuti e, spesso, il dover colloquiare con addetti poco preparati. Umilia ancora di più la mancanza di riservatezza, in quanto quasi sempre il colloquio avviene in presenza di altre persone. Mi domando: se è vero che le nuove tecnologie informatiche permettono a tutti gli Enti di verificare con un semplice clic – in tempo reale – lo stato patrimoniale del povero disgraziato che cerca un po’ di aiuto, per quale motivo si continua a vessare il bisognoso con richieste di certificazioni e documenti vari e con inviti a ritornare negli uffici? Vorrei che questi “benefattori” ricordassero che se anche dieci euro fanno comodo, la dignità di un essere umano, in particolare dell’anziano, non ha prezzo; e che chi è vecchio, povero, e per giunta malato, è due volte vecchio, due volte povero, due volte malato!
Raffaele Pisani napoletano a Catania
Immaginatevi di avere ottant’anni, e di fare fatica a camminare. Di dovere uscire, una mattina, per avere una delucidazione sulla pensione che percepite, quei settecento euro con cui tirate faticosamente avanti. Già la strada fino alla fermata dell’autobus non è così breve, con le gambe malferme. Salite a fatica i gradini alti. L’autobus è affollato, non c’è posto per sedere. Attaccati a una maniglia oscillate pericolosamente alle frenate. Al Patronato c’è la coda, tanta gente come voi, pensioni minime o non molto di più. L’attesa in una sala anonima, fra gente che va e che viene. C’è molto da aspettare. Sentirsi un numero, fra altri numeri che attendono in silenzio. Le facce di chi vi sta intorno dicono, nelle rughe, quanto negli anni avete faticato. Le lancette dell’orologio sul muro avanzano lentissimamente. C’è anche un crocefisso, le braccia inermi spalancate. E quando finalmente tocca a voi, vi sedete davanti a un impiegato stanco, che dapprima non capisce che cosa volete. C’è gente attorno, tutti sentono la domanda che ripetete: una povera questione di venti euro in più o in meno, a fine mese. L’impiegato sulla tastiera del pc digita qualcosa, digita di nuovo. Finalmente il responso: occorrono altre carte, altri certificati, bisogna andare in quel tale ufficio dall’altra parte della città – e per andarci voi dovrete cambiare due autobus, con quelle gambe che reggono poco. Ve ne tornate a casa sentendovi un poco un mendicante, con i vostri quasi quarant’anni di lavoro alle spalle. Ma dovete stare attenti a questi modi, a questi toni con cui vi si risponde. A volte con una quasi benevola sufficienza, come se foste un po’ meno uomini degli altri. Come se la vostra dignità fosse un po’ minore, essendo vecchi. È un forse nemmeno pienamente conscio modo di emarginare chi ha perso la salute, il potere, i soldi. Quasi non ci pensa, magari, quell’impiegato annoiato, che in fondo è un brav’uomo. Occorre avere memoria e certezza di quanto avete lavorato, di quanti vi vogliono bene, e di quanto cari siete a Dio, per non rassegnarsi a essere trattati come cittadini minori. Perché c’è fra noi un tacito indicibile imperativo: chi non è più nel pieno della efficienza, è uno scarto. Se ne rendessero conto negli uffici delle mille nostre burocrazie, di quanto vale, con quegli “utenti” coi capelli bianchi, una carta di meno da portare. O uno sguardo gentile, o, perfino, un sorriso.