Quanti ragazzi, negli ultimi giorni, portati via dalla morte in circostanze assurde. Il liceale milanese di 14 anni finito sotto un tram nei cinquecento metri che lo separavano da casa a scuola. (Fra amici a cena, e nei bar della pausa pranzo fra colleghi ci si interroga: come mai, perché improvvisamente quel ragazzo ha svoltato? Com’ è possibile che non abbia visto il tram, accanto a lui, che arrivava?).
E quell’altro, 18 anni, a Roma, falciato su un marciapiede una sera, mentre semplicemente camminava? Si sta in ansia se i figli sono in auto fuori città la sera, ma, quel ragazzo era su un marciapiedi. Nessun luogo allora è salvo dagli agguati di un destino crudele? E la diciottenne veneta travolta da un'auto mentre rincasava di notte a piedi su una Provinciale? Dopo una lite con il suo ragazzo era rimasta sola. Aveva chiamato il padre perché la venisse a prendere. Ma il padre quella notte, stanco, aveva spento il cellulare.
Muoiono giovanissimi, ci raccontano le cronache, presi da un caso che pare incredibile. E quanto chi ha figli e nipoti resta ferito da queste notizie. Come ci fosse, nascosto nelle nostre città, un cecchino sui tetti, in agguato. A un tratto sceglie a chi mirare. Perché Luca, perché Francesco? Non si vede alcuna ragione.
Impossibile, capire. (Certo, per quanto cerchiamo di non pensare a certe ipotesi, lo sappiamo in fondo che nemmeno la sera di questo giorno appartiene ai nostri figli, o a noi stessi. Ma, quanto ai figli, quel timore è lacerante, perché ci sono, loro, molto, molto più cari di noi).
È sempre accaduto nella storia del mondo, anzi fino all’avvento degli antibiotici per portare via un bambino bastava il morbillo. In certi cimiteri di montagna c’è ancora, l’angolo dei bambini, e dalle date sulle lapidi comprendi quanto piccoli erano, e come sono morti tutti in un inverno, rapiti insieme. Come facevano quei padri, quelle madri, ti domandi. Forse con sei o otto figli il vuoto lasciato da chi moriva era ugualmente incolmabile, ma gli altri ti si affollavano attorno ad abbracciarti, e a darti la forza di continuare.
Ciò che invece oggi ci rende insostenibilmente vulnerabili è che di figli ne abbiamo due, o anche uno solo. E in quest’ultimo caso puoi capire il padre che dice: “Morto lui, non ho più un motivo per andare avanti”. Lo capisci con profonda compassione, e forse è la stessa cosa che diresti tu, nella medesima circostanza, anche tu: tu con la tua fede, tu con i tuoi forti ideali.
Le generazioni di un tempo crescevano e educavano tanti bambini e poi, ancora giovanissimi, lasciavano che camminassero da soli. Noi ai nostri pochi o unici figli ci leghiamo a volte come se la dipendenza e la tenerezza dell’infanzia potessero durare per sempre. Come se i figli fossero “nostri”, come se ci appartenessero per sempre.
L’adolescenza con le sue metamorfosi, i suoi mutismi, le sue ribellioni sembra fatta apposta dalla natura per risvegliarci da questa illusione. Ma magari ci diciamo: è l’età, è solo un momento… Le morti di ragazzi su cui le cronache insistono, umanamente assurde, ci ripetono invece bruscamente: i vostri figli non vi appartengono, non sono “vostri”, non lo sono mai stati. Vi sono solo stati affidati. Ma che fatica è ricordarselo, anche fra cristiani, fra uomini e donne che dovrebbero sapere come ognuno appartenga davvero solo a Cristo. (E agli altri, invece, a chi non ha alcuna fede e non nutre altre speranze, in queste sciagure cosa resta? Tremi nel pensarci).
Che schiaffi tirano certe mattine le notizie alla radio, o sul web. “Ma hai sentito? – ci diciamo – aveva l’età di Anna, di Andrea, di Marco…” – l’età dei nostri ragazzi. E ci sentiamo stringere il petto in una morsa. Il cecchino, il misterioso cecchino non è forse ancora là fuori?
L’angoscia pagana di un destino cieco allora ci affronta. Se imparassimo a ringraziare ogni mattina per averli avuti, a ringraziare ogni mattina per il dono che sono – e che ritroveremo, nella vita che ci è promessa. Solo coltivando la gratitudine per il dono che è un figlio, si può cercare di amarlo con gratuità. Di amarli senza quella simmetrica silenziosa paura, di amarli senza possesso. (L’abisso del possesso emerge in quei poveri resti trovati ieri sepolti sotto a un capannone a Novellara, Reggio Emilia. Ciò che rimane di Saman, 18 anni, bellissima, uccisa da suo padre con la complicità della madre e degli zii, solo perché non voleva cedere a una pretesa antica, tirannica. Dal padre e anche dalla madre, capite: da quella madre che l’aveva cullata e allattata. Si fatica a crederlo. Ma fino a qui può atrocemente arrivare la pretesa su una figlia , se la si ritiene cosa nostra). Altri da noi, invece. Semplicemente, ci sono stati affidati. Ciò che li chiama è il loro destino – misterioso magari fino alla vertigine, eppure buono. Questi figli così nostri, così vertiginosamente non nostri.