Caro direttore,
sono un dirigente pubblico, che da 25 anni lavora in una autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità (la chiamano Authority, fa più scena, l’inglese ci è ormai indispensabile come il latinorum per don Abbondio). Quindi rientro anch’io fra i destinatari della lettera del cardinal Zuppi. Bella, intensa, ricca di citazioni, che però sconta l’impossibilità di distinguere tra i diversi tipi di 'servitori delle istituzioni'. Vedo almeno tre categorie: i dipendenti pubblici, i rappresentanti delle istituzioni eletti dal popolo, i manager nominati dalle istituzioni ai vertici di enti e aziende pubbliche. Per ciascuno di esse il discorso andrebbe approfondito.
E nell’approfondimento emergerebbero questioni spinose. Come quella che, da dirigente pubblico, mi permetto di evidenziare, che riguarda l’invadenza po-litica, la debolezza dirigenziale e la perversione sindacale. Le riforme della pubblica amministrazione nel nostro Paese, a partire dagli anni Ottanta, hanno perseguito il principio di separazione tra politica e amministrazione: alla politica le funzioni di indirizzo e controllo, all’amministrazione la gestione operativa. Al- la prova dei fatti né la politica né l’amministrazione hanno tenuto fede al proprio ruolo. Da una parte i politici vogliono collocare nei posti chiave persone di stretta fiducia e creare il 'cerchio magico'.
Dall’altra, i dirigenti considerano conveniente l’affiliazione politica come via maestra per raggiungere i propri obiettivi di carriera. Cedono quindi potere decisionale in cambio della sicurezza dell’incarico e delle prospettive di crescita professionale. Per ottenere il posto sono iper-attenti agli equilibri dei governi. Considerata, specie a livello centrale, la cronica instabilità dei governi, ciò determina, soprattutto per gli incarichi amministrativi di vertice, un orizzonte troppo breve per avviare un’attività di gestione programmata e connotata da continuità. Spesso vince l’attendismo se non l’inerzia.
Più il gruppo dirigente politicodirigenziale è debole e indirizzato verso logiche personalistiche, più cerca il consenso dei sindacati per proporre lo scambio, antico come il mondo, tra clientelismo- lassismo. Tu mi lasci fare con i miei amici e io non ti chiedo di lavorare. I sindacati solitamente accettano il patto scellerato. I sindacati nel pubblico impiego godono di ottima salute, vedono un aumento di iscritti, lungi da me volerli delegittimare. Dico semplicemente quel che ho visto, stando dal lato del 'padrone'. I rappresentanti dei lavoratori che si siedono al tavolo negoziale sono i più restii al grigio lavoro quotidiano. Questa propensione al non-lavoro non è però sufficiente a determinare una vera vocazione sindacale.
Occorrono pure la fantasia nello scovare fra gli interstizi delle leggi e dei regolamenti soluzioni creative che diano soldi senza lavoro e spazi fuori controllo, l’indifferenza per le esigenze di bilancio, la spregiudicatezza nel chiedere le nomine per i propri iscritti e la testa dei dirigenti sgraditi. Nel perverso intreccio politicodirigenziale- sindacale, devo dire, per amor di verità, che ho pure incontrato politici, dirigenti, sindacalisti preoccupati in primis di garantire il buon nome e il corretto funzionamento dell’ente pubblico. Rari nantes in gurgite vasto. Nessuno di loro ha resistito a lungo: prima criticati, poi diffamati, poi isolati, infine espulsi dal sistema. Mi fermo qui, caro direttore, senza poter affrontare altre questioni, altrettanto importanti: come si entra nella pubblica amministrazione? E una volta entrati, ammesso e non concesso che si lavori, chi lavora che lavoro fa? E adesso che c’è lo smart working, quale work esce dalle mura domestiche? Mi auguro che altre voci, di tutte e tre le sopracitate categorie, continuino il dibattito sullo stato della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese.