Quant'è difficile lavorare nella macchina pubblica
sabato 11 giugno 2022

Caro direttore,

sono un dirigente pubblico, che da 25 anni lavora in una autorità di regolazione di servizi di pubblica utilità (la chiamano Authority, fa più scena, l’inglese ci è ormai indispensabile come il latinorum per don Abbondio). Quindi rientro anch’io fra i destinatari della lettera del cardinal Zuppi. Bella, intensa, ricca di citazioni, che però sconta l’impossibilità di distinguere tra i diversi tipi di 'servitori delle istituzioni'. Vedo almeno tre categorie: i dipendenti pubblici, i rappresentanti delle istituzioni eletti dal popolo, i manager nominati dalle istituzioni ai vertici di enti e aziende pubbliche. Per ciascuno di esse il discorso andrebbe approfondito.

E nell’approfondimento emergerebbero questioni spinose. Come quella che, da dirigente pubblico, mi permetto di evidenziare, che riguarda l’invadenza po-litica, la debolezza dirigenziale e la perversione sindacale. Le riforme della pubblica amministrazione nel nostro Paese, a partire dagli anni Ottanta, hanno perseguito il principio di separazione tra politica e amministrazione: alla politica le funzioni di indirizzo e controllo, all’amministrazione la gestione operativa. Al- la prova dei fatti né la politica né l’amministrazione hanno tenuto fede al proprio ruolo. Da una parte i politici vogliono collocare nei posti chiave persone di stretta fiducia e creare il 'cerchio magico'.

Dall’altra, i dirigenti considerano conveniente l’affiliazione politica come via maestra per raggiungere i propri obiettivi di carriera. Cedono quindi potere decisionale in cambio della sicurezza dell’incarico e delle prospettive di crescita professionale. Per ottenere il posto sono iper-attenti agli equilibri dei governi. Considerata, specie a livello centrale, la cronica instabilità dei governi, ciò determina, soprattutto per gli incarichi amministrativi di vertice, un orizzonte troppo breve per avviare un’attività di gestione programmata e connotata da continuità. Spesso vince l’attendismo se non l’inerzia.

Più il gruppo dirigente politicodirigenziale è debole e indirizzato verso logiche personalistiche, più cerca il consenso dei sindacati per proporre lo scambio, antico come il mondo, tra clientelismo- lassismo. Tu mi lasci fare con i miei amici e io non ti chiedo di lavorare. I sindacati solitamente accettano il patto scellerato. I sindacati nel pubblico impiego godono di ottima salute, vedono un aumento di iscritti, lungi da me volerli delegittimare. Dico semplicemente quel che ho visto, stando dal lato del 'padrone'. I rappresentanti dei lavoratori che si siedono al tavolo negoziale sono i più restii al grigio lavoro quotidiano. Questa propensione al non-lavoro non è però sufficiente a determinare una vera vocazione sindacale.

Occorrono pure la fantasia nello scovare fra gli interstizi delle leggi e dei regolamenti soluzioni creative che diano soldi senza lavoro e spazi fuori controllo, l’indifferenza per le esigenze di bilancio, la spregiudicatezza nel chiedere le nomine per i propri iscritti e la testa dei dirigenti sgraditi. Nel perverso intreccio politicodirigenziale- sindacale, devo dire, per amor di verità, che ho pure incontrato politici, dirigenti, sindacalisti preoccupati in primis di garantire il buon nome e il corretto funzionamento dell’ente pubblico. Rari nantes in gurgite vasto. Nessuno di loro ha resistito a lungo: prima criticati, poi diffamati, poi isolati, infine espulsi dal sistema. Mi fermo qui, caro direttore, senza poter affrontare altre questioni, altrettanto importanti: come si entra nella pubblica amministrazione? E una volta entrati, ammesso e non concesso che si lavori, chi lavora che lavoro fa? E adesso che c’è lo smart working, quale work esce dalle mura domestiche? Mi auguro che altre voci, di tutte e tre le sopracitate categorie, continuino il dibattito sullo stato della Pubblica Amministrazione nel nostro Paese.

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