In tanti hanno apprezzato la lettera del cardinale Zuppi per la festività del 2 giugno tesa a motivare chi lavora nelle istituzioni (a tutti i livelli) e a fare sentire ai cittadini il valore di questo servizio. Un bell’esordio, un buon biglietto da visita del neopresidente della Cei che, esemplarmente, esprime il senso di quella collaborazione della Chiesa italiana con le istituzioni civili per il bene della persona e della comunità che è scolpita nell’accordo di revisione del Concordato a sua volta ispirato a Costituzione e Concilio. Un testo coerente con l’idea di Repubblica cara ai costituenti – la «casa comune nella quale siamo chiamati ad abitare insieme» (Moro) – e appunto con i princìpi della nostra Legge fondamentale.
Un messaggio che palesemente si propone di illustrare e di cementare le ragioni dello stare insieme come comunità di valori e di destino. Personalmente ho apprezzato le parole di Zuppi – pubblicate su 'Avvenire' del 2 giugno ( https:// tinyurl.com/ycyxkbdk ) – e, prima ancora, l’idea del messaggio anche per altre tre ragioni. La prima: l’accento posto sul sensovalore delle pubbliche istituzioni, oserei dire la loro valenza etica (da non confondere con lo Stato etico). «Il filo che tiene insieme il vestito», ci ricorda Zuppi con la bella immagine di Madeleine Delbrêl. Ovvero la consapevolezza, non sempre adeguata, che le istituzioni non sono un freddo apparato burocratico, ma strumento essenziale per custodire e promuovere beni-valori assolutamente essenziali per la qualità della vita di persone e comunità.
La seconda: che in esse operano concrete persone, magari anonime ma spesso generose e capaci, delle quali non sempre si apprezza il servizio. Più facilmente bersaglio di critiche e pregiudizi immotivati. La terza ragione: Zuppi opera una lettura singolarmente puntuale, concreta, partecipe delle condizioni difficili in cui è posto chi lavora nelle istituzioni. Si mette nei loro panni. Torna alla mente la 'lettera a un sindaco' stilata nel 1986 dal cardinal Martini nell’orizzonte di un grande convegno della diocesi di Milano sul «farsi prossimo».
Una lettera ispirata a paterna comprensione e a solidarietà per tanti amministratori locali dediti al bene comune, ma spesso misconosciuti. In essa Martini si spingeva sino a sostenere che quel loro servizio al prossimo è tanto più meritorio in quanto meno gratificante rispetto al volontariato inteso come gesto-risposta immediata e diretta al bisogno di persone dal volto preciso e riconoscente. Sia perché il servizio dell’uomo delle istituzioni sconta un indice di anonimato circa il destinatario, essendo mirato alla comunità tutta e non a singoli, individuati beneficiari (lo nota anche Zuppi: «non possiamo sapere chi siano» le tante persone per cui si lavora). Sia perché, a differenza del volontariato, si sconta un grado di incertezza circa la buona riuscita delle proprie azioni amministrative. Le quali, talvolta, pur mosse da buone intenzioni, non danno i risultati attesi.
Capita spesso. Sia infine perché gli uomini pubblici – politici, funzionari, impiegati nel pubblico – sono più esposti al giudizio severo, spesso impietoso e tagliente, della collettività. Non vorrei essere ingeneroso, ma non sempre, da parte degli stessi uomini di Chiesa, chi opera nelle istituzioni si sente compreso e sostenuto nel proprio lavoro, in molti casi umile e ingrato. Più facilmente si sente giudicato con severità o comunque circondato da una inadeguata comprensione per l’arte difficile di corrispondere alle attese di comunità sempre più esigenti e talvolta incattivite. Costoro non pretendono sconti, solo vorrebbero essere stimolati a fare di più e meglio grazie al positivo riconoscimento del valore del loro servizio alle pubbliche istituzioni e alla comunità. Si può sperare che la lettera di Zuppi possa rappresentare per loro un riconoscimento e uno stimolo e, per i cittadini, un motivo di apprezzamento per chi serve la cosa pubblica.