giovedì 21 gennaio 2010
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Questa è la storia di Elisabeth nata due volte, se fosse possi­bile venire due volte al mondo e a­prire un’altra volta gli occhi, dopo che sembravano essersi chiusi per sempre. Noi che assistiamo com­mossi a fatti tanto strabilianti, che fanno carta straccia di ogni logica, abbiamo soltanto una parola per definirli: miracolo, rimettendo al divino questa difficoltà di spiegar­li con i ragionamenti che sono di questa terra. Elisabeth, nata due volte, è stata trovata viva tra le macerie del ter­remoto che sommergono Haiti. Lo stupore subito si trasforma in gioia, quando in circostanze terribili co­me questa tragedia si scava tra i morti e si sente ancora il battito e il respiro dei vivi. Nel caso di Elisa­beth lo stupore è stato ancora più grande, perché ha soltanto 15 gior­ni di vita. Vuol dire – e i soccorrito­ri con la madre Michelene hanno presto fatto il conto – che Elisabeth, quando l’isola caraibica è stata scossa dal violento terremoto, era venuta al mondo soltanto otto gior­ni prima. Così piccoli, i bambini nelle culle hanno addosso una co­perta che li tiene al caldo; Elisabeth ha avuto su di sé per altri sette gior­ni, da quello della scossa, le rovine di una vita che non avrebbe potu­to vivere. Come sia stato possibile, come un corpicino così piccolo sia sopravvissuto, nessuno potrà mai spiegarlo senza quella parola di cui spesso si fa anche un uso banale: miracolo, che invece dovrebbe es­sere riservata soltanto per quelle cose che non sappiamo spiegarci ragionando con i limiti umani. Due settimane fa, Elisabeth è nata dal grembo della madre in questa casa che, crollando, le ha fatto da culla e da coperta. Non l’ha schiac­ciata. Come se il male si fosse ar­reso davanti all’innocenza, mosso a pietà. E quando l’hanno estratta dai calcinacci e dalle rovine della quotidianità trasformata in ferri contorti e oggetti distrutti, è stato per Elisabeth come un secondo parto. Ha riaperto un’altra volta gli occhi alla vita. Forse anche il vagi­to è risuonato uguale: quel dispe­rato vagito dei neonati, come quando è nata dal grembo mater­no e adesso dalla terra, come il te­nero croco che buca il manto di ne­ve e affiora delicato in superficie. Ai soccorritori, muti davanti all’in­credibile, è parso come se da una montagna di sale infecondo na­scesse una vita. Chi non ha mai avuto la ventura di trovarsi in una circostanza simile – che può essere un’alluvione, un ter­remoto o un maremoto, a secondo se si sia ribellato il cielo, la terra o il mare – non immagina cosa si­gnifichi una tale rinascita. Il tem­po si ferma. Sono sospesi il fiato e il pensiero, e ci si consola nel pian­to, perché pare quasi che una vita, quando nessuno ci sperava più, conti per un attimo più dei tanti morti che non si contano più. Questa vita ormai insperata è un miracolo perché è la speranza. For­se speranza è l’altro nome che si può dare al miracolo di fatti in­spiegabili. La piccola Elisabeth ce lo dice: la vita riprende, tutto con­tinua ed è possibile ricominciare. È quanto avviene in piccolo in una stanza d’ospedale, quando le nubi di una grave malattia diradano e pare di scorgere una piccola luce in fondo al buio, proprio come la luce che ha visto di nuovo Elisa­beth. È quella guarigione, che qual­cuno chiamerà miracolo, che dice a chi ha temuto di chiudere per sempre gli occhi, che gli resta an­cora un scampolo di vita, da qui al­l’eternità.
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