Il calcio attrae tanti giovani e non sempre offre modelli di comportamento. Ma ci sono eccezioni. Cesare Albè, 71 anni, in panchina. È direttore tecnico della Giana Erminio di Gorgonzola, in serie C
Date a Cesare quel che è di Cesare. Il 'Ferguson della Martesana' è lui, l’allenatore 71enne Cesare Albè da Gorgonzola. Da oltre quarant’anni, questo rarissimo educatore di campo naviga per i club dei campanili che si affacciano sulle acque del Naviglio a nord-est di Milano. La sua casa, l’ultima, è la Giana Erminio, società intitolata alla memoria di un sottotenente degli alpini caduto nella Grande Guerra. E Cesare, da condottiero già nel nome, nel 2014 ha guidato i biancazzurri della Giana fino al traguardo insperato del professionismo, tuttora frequentato in serie C. L’ha fatto con la semplicità del mister di un calcio 'pane e formaggio', come quel gorgonzola dal retrogusto erborinato e manzoniano che il padre-patron del club, Oreste Bamonte, produce nel suo stabilimento caseario.
Da un paio di stagioni però, causa problemi di salute ora «superati», il mister non va più in panchina, («a meno che non ci sia necessità di subentrare in corsa e di fare da 'riempitivo'») e per acclamazione popolare è diventato il vicepresidente e responsabile dell’area tecnica della Giana. Così alla domenica – come domani, quando la squadra di Gorgonzola disputa il derby con la Pro Sesto – può godersi l’abbraccio dei tanti ex allievi della sua scuola di vita, ancor prima che di calcio, che si danno appuntamento nella tribuna dello Stadio Comunale. «Ai miei ragazzi, e ne ho avuti centinaia in tutti questi anni, ho sempre insegnato che prima viene la famiglia, poi la scuola e infine il calcio. E il massimo della fortuna sa qual è? Quando a casa hanno dei buoni genitori, se riescono a seguire un buon percorso scolastico e poi magari al campo trovano anche un allenatore che li forma da tutor aggiunto, anzi, da buon educatore, come penso di essere sempre stato io».
Il suo motivo di orgoglio sono «le decine di giovani, ora padri di famiglia, che non sono diventati sportivi ma sono riconosciuti come brave persone.
Tre schemi fondamentali che spesso Albè è riuscito a concretizzare da mister-padre che al professionismo non ci pensava. E quando c’è arrivato era proprio mentre andava in pensione dopo una vita passata a lavorare nel ramo telecomunicazioni. «Non volevo neanche farlo, il corso allenatori a Coverciano. Lì incontro Rino Gattuso, al quale confidai: mi sento un pesce fuor d’acqua, cosa c’entro io con questo mondo del calcio professionistico? E allora 'Ringhio', che è un ragazzo splendido, mi diede una gran lezione. Disse: 'Guarda Cesare, che se c’è uno che si merita di stare qui, beh quello sei proprio tu. Anch’io quando sono arrivato al Milan davanti a tutti quei campioni mi sentivo fuori luogo, poi però mi sono rimboccato le maniche e ho dato tutto me stesso. E alla fine, pensa, uno come me è diventato pure campione del mondo'. Sono parole di un ragazzo del ’78, come mio figlio».
Di figli non suoi, ma che ha cresciuto a 'pane e pallone' come fossero nati in casa Albè, Cesare ne ha avuti parecchi. «A volte penso che la mia più grande vittoria sia stata quella di essere riuscito a entrare nel cuore di quasi tutti i ragazzi che ho allenato. A cominciare dalla Pierino Ghezzi, la mia prima squadra, quella dell’Oratorio san Giovanni. Bosco di Cassano d’Adda. Lì alla domenica prima della partita tutti insieme segnavamo le linee del campo con la calcina e davanti alla porta spargevamo la segatura. Ed è il profumo, con quello dell’erba appena tagliata, che mi è rimasto sempre addosso. Così come la consapevolezza che per me una partita di Terza categoria o di Serie C hanno lo stesso identico valore. E anche questo, ho cercato di trasmetterlo ai miei ragazzi». Messaggio ricevuto da alcuni dei suoi migliori allievi che scendono in campo da professionisti ma che fanno anche un altro lavoro. Come il 34enne Fabio Perna, bomber alla domenica con la Giana (10 gol segnati lo scorso campionato) e tipografo a Famiglia Cristiana il resto della settimana.
«So che mi prenderanno per un pazzo, ma io sono convinto, da sempre, che è possibile conciliare calcio e studio, così come il professionismo con un altro mestiere. Anche perché il mestiere del pallone ha una durata brevissima e un 'piano b' nella vita serve sempre ». Poi ci sono gli allievi di Albè che co- me 'piano b' hanno scelto di rimanere nel calcio, come Andrea Chiappella. «È stato il capitano della mia Giana. Chiappella è uno che se avessi dei figli adolescenti che giocano a calcio vorrei tanto trovassero al campo uno come lui, un tecnico-educatore che prima della tattica sa insegnare quei valori che completano la crescita del ragazzo. Andrea, come tanti dei miei calciatori, ha imparato che si deve sempre mettere l’Io un passo indietro, e pensare prima di tutto al 'Noi', al bene del gruppo, che poi porterà beneficio anche al singolo».
Un concetto cristiano che è frutto di una profonda cultura oratoriale ben radicata in mister Albè: «È la stessa cultura che ha permesso a Roberto Mancini di diventare un fuoriclasse e ora un ct campione d’Europa. Molti dei suoi azzurri so che arrivano dagli oratori, luoghi fondamentali che andrebbero promossi e ripopolati. I campi degli oratori sono i migliori per la formazione, possono dare molto di più delle comuni scuole calcio. Lì, nel campetto vicino alla parrocchia, sopravvive ancora il volontariato puro, quello che si mette a disposizione delle famiglie per togliere i ragazzi dalla strada e farli crescere sani, grazie allo sport e, soprattutto, al calcio». Lo spirito da educatore calcistico nato e cresciuto in oratorio ha permesso ad Albè di «salvare tanti ragazzi dai pericoli della strada », e molti di loro gli saranno riconoscenti in eterno. «Ricevo ancora tanti di quei messaggi che a volte mi tolgono il fiato dall’emozione, mi commuovo fino alle lacrime... È in quei momenti che penso: forse, Cesare, hai davvero seminato bene. Alla Giana nelle riunioni con i genitori vado ripetendo da sempre che i figli non hanno bisogno di scienziati in casa, ma di semplicità, di cure quotidiane e di attenzioni per via delle loro innumerevoli fragilità. Io non li ho solo allenati, ma ho donato tempo e amore, sottraendolo spesso anche alla mia famiglia, con la quale sarò sempre in debito. Così come sono in debito con tutti i miei ragazzi, perché è molto di più quello che mi è tornato indietro rispetto a quanto sono riuscito a dare».
Come un 'Paròn' del terzo millennio – «Nereo Rocco è sempre stato il mio punto di riferimento, perché trattava i calciatori come figli» – , Albè va fiero di quei ventenni come Tommaso Augello che dalla Giana è riuscito a far volare fino alla Serie A («ora gioca nella Samp»). Il suo maggiore motivo di orgoglio però sono «le decine di ragazzi, ora padri di famiglia, che non sono diventati calciatori professionisti ma continuano a fare squadra e sono riconosciuti nella società civile come brave persone. Quasi tutti hanno imparato la mia prima lezione di quando li allenavo e gli dicevo: ricordatevi, a volte una sconfitta aiuta a crescere e diventare migliori molto più di tante inutili vittorie». Questo è il credo del mister-papà, il 'san Giuseppe' della Giana Erminio. E se è vero che il calcio è una fede, allora sarà proprio la fede a salvare anche gli uomini di calcio.
«Vado sempre alla Messa e con i miei giocatori spesso mi sono confrontato sui valori e i temi forti del cristianesimo»
«Vado sempre alla Messa e con i ragazzi spesso mi sono confrontato sui valori e i temi forti del cristianesimo. Proprio pochi giorni fa con Riccardo (Rossini, centrocampista della Giana, ndr), parlavamo di suo fratello morto nei mesi scorsi in un incidente in moto. Gli ho detto: Riccardo, sappi che dinanzi a questi grandi dolori nulla ti potrà consolare se non ti aggrappi alla fede in Dio... Io ho una sola certezza, tutto quello che ho realizzato e continuo a fare con questi ragazzi nel calcio è solo grazie a una fede incrollabile che mi dà forza e gioia per ripartire ogni giorno come se fosse il primo, e mi dona speranza nel futuro».