«Nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune». Commentando questo passo degli Atti degli Apostoli, papa Francesco ha alzato lo sguardo dal foglio e, ancora una volta, ha ribadito: questo «non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro». Nella prima comunità cristiana, a partire dall’esperienza del Risorto, i cristiani vivevano in unità di cuori e di spirito e condividevano quanto possedevano. Una delle costanti del magistero di Francesco, a partire dall’esortazione Evangelii gaudium, è quella di provare a fondare le nostre azioni, soprattutto quelle pastorali, sulla freschezza del Vangelo. E le sue parole hanno molte volte una forza dirompente, ricevendo una grande attenzione mediatica. Appaiono come una grande novità, anche se in realtà sono verità che accompagnano la storia della Chiesa. Sono nuovi la franchezza e il vigore con cui sono proclamate. Sine glossa, un po’ come il proposito del Santo di cui il Papa porta il nome.
Francesco si era soffermato su questi temi anche in un’udienza dello scorso settembre. Un ciclo di catechesi in cui ha provato a leggere i princìpi della Dottrina sociale della Chiesa alla luce della pandemia. In quella sulla destinazione universale dei beni, riprendendo il Catechismo ci ricorda che la terra è stata data da Dio «a tutto il genere umano» (2402). Questo ci impegna a fare in modo che i suoi frutti arrivino a tutti. Ma anche il Concilio Vaticano II va nella stessa direzione: «L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» ( Gaudium et spes, 69).
Il principio che sta alla base di tutto è la destinazione universale dei beni: quando il possesso impedisce che i beni arrivino a tutti, allora bisogna porre rimedio. Sempre nel Catechismo leggiamo: «L’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune» (2406).
Volutamente non si citano qui la Laudato si’ o la Fratelli tutti, encicliche di Francesco, proprio per mostrare che la subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni è un principio che accompagna la Chiesa dagli Atti degli Apostoli fino al Concilio Vaticano II, e oltre. Il Papa ha il coraggio di ricordarlo a un mondo che sembra assopito e inerte di fronte al crescere delle disuguaglianze.
Da una parte, l’attenzione mediatica ci fa pensare che stiamo ascoltando la parola di cui c’è bisogno, dall’altra parte il voler liquidare quelle stesse parole come associabili al comunismo 'sconfitto dalla storia', ci dice forse il tentativo di cercare un pretesto per liquidare verità scomode.
Il Covid sta portando alla luce le contraddizioni di un sistema che ha generato crescenti disuguaglianze. Se, come da dati Oxfam, l’aumento della ricchezza dei 10 miliardari più ricchi al mondo dall’inizio della pandemia sarebbe sufficiente a contrastare gli effetti economici della crisi per i più poveri e a garantire vaccini in tutto il mondo, questo sistema non funziona. Il patto sociale di fronte a queste evidenze si sgretola. Perché a fronte di un evento esterno inaspettato chi opera in un settore viene penalizzato e rischia per esempio di perdere la propria casa per non riuscire a far fronte ai debiti, e chi opera in altri settori vede aumentare, e di molto, i guadagni? È questo il mondo che vogliamo? Dove nascere in un posto, invece che in un altro può determinare opportunità del tutto diverse, dove di fronte a un male comune le conseguenze per i singoli sono tutt’altre?
Il Papa ripete che, proprio di fronte a un flagello mondiale come la pandemia, è bene aver chiaro che la terra è di tutti, che i beni ci sono stati donati perché siano condivisi, che non possiamo dirci cristiani e non ci sentiamo custodi per davvero gli uni degli altri.
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