giovedì 26 aprile 2012
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Passano i decenni (siamo ormai vi­cini alla conclusione del settimo), si susseguono gli appelli a supe­rare divisioni anacronistiche (l’ultimo dal capo dello Stato, l’altroieri), si spen­dono risorse morali per imprimere nuove spinte a ricostruire insieme il fu­turo comune. Eppure questo virus an­tico e ostinato, che affligge alla radice l’anniversario della Liberazione dal na­zifascismo, non si riesce ancora ad e­stirparlo. È un male ben poco oscuro, un vizio originario che conosciamo be­nissimo. È il retaggio di una mancata riconciliazione nazionale, a sua volta frutto di spinte e di veri e propri condi­zionamenti ideologici a lungo coltivati in sede politica, nel tentativo di lucra­re vantaggi elettorali e di restringere, anche solo psicologicamente, i campi d’azione altrui. Ecco perché ieri, 25 aprile 2012, accan­to a momenti solenni e perfino sugge­stivi di festa sincera e condivisa, abbia­mo dovuto ancora registrare tensioni e scontri nelle piazze, squallidi episodi di danneggiamento contro simboli e luo­ghi di memorie, beceri tentativi di con­testazione e di esclusione, talvolta in­nescati da precedenti espressioni di di­sprezzo per i valori celebrati. Ma so­prattutto, per l’ennesima volta, il ne­cessario clima istituzionale unitario, a cominciare dalla Capitale, è stato com­promesso da assenze più o meno a­pertamente auspicate o suggerite, più o meno volentieri accettate o subite. In altri termini, è mancata di nuovo la pos­sibilità di mostrare al Paese – in parti­colare alle nuove generazioni, teorica­mente ancora immuni dalla faziosità preconcetta – l’eredità più preziosa del­la Resistenza: ossia la pratica dei valo­ri condivisi della democrazia, a comin­ciare dalla tolleranza e dal rispetto re­ciproco. Perché questo è il punto decisivo: se i discendenti politici di vecchie idee con­dannate dalla storia, come il fascismo, dopo un lungo percorso di emancipa­zione e di revisione, sono oggi alla gui­da di organismi rappresentativi legitti­mamente eletti, questo è avvenuto pre­cisamente grazie al sacrificio di chi, da altri versanti, quelle idee ha combattu­to e sconfitto. È dunque autolesionisti­co, oltre che ingiusto, consentire che quella vittoria venga oggi svilita dalle intimazioni di pochi facinorosi, che e­sigono ostracismi minacciando altri­menti violenze e boicottaggi. In realtà certe timidezze, e magari qual­che riserva mentale, affliggono tuttora una parte non esattamente piccola e marginale dello schieramento di sini­stra: quella parte che, a sua volta, sem­bra – sembra! – aver pienamente in­corporato le regole del gioco democra­tico solo dopo la definitiva caduta dei miti rivoluzionari del comunismo. E questo lascia affacciare il sospetto che una qualche dose di indulgenza, in fa­vore di violenti schierati sotto bandie­re lontanissime dai valori resistenziali, sia funzionale al recupero di consensi altrimenti irraggiungibili. O che, peg­gio, il difetto genetico prima ricordato condizioni ancora l’accettazione piena delle regole costituzionali. Certo, il clima sociale che si respira, 67 anni dopo, in questa festa della Libera­zione non è tra i più favorevoli ad ac­compagnare sforzi supplementari di ri­conciliazione. È facile soffiare sui di­versi fuochi dello scontento che si ac­cendono sotto l’incalzare della crisi e­conomica, tanto più a fronte dei sacri­fici pesanti chiesti ai cittadini per con­tribuire al risanamento dei conti pub­blici. Eppure sono proprio questi mo­menti che dovrebbero ispirare, in chi si fregia in maggior misura del merito sto­rico della riconquistata libertà, un im­pegno supplementare a difendere a vo­ce alta la casa comune, a tenere alla lar­ga chi, magari sotto altre insegne ma con le stesse armi dell’intolleranza e della sopraffazione, punta di nuovo a scardinarla.
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