Passano i decenni (siamo ormai vicini alla conclusione del settimo), si susseguono gli appelli a superare divisioni anacronistiche (l’ultimo dal capo dello Stato, l’altroieri), si spendono risorse morali per imprimere nuove spinte a ricostruire insieme il futuro comune. Eppure questo virus antico e ostinato, che affligge alla radice l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo, non si riesce ancora ad estirparlo. È un male ben poco oscuro, un vizio originario che conosciamo benissimo. È il retaggio di una mancata riconciliazione nazionale, a sua volta frutto di spinte e di veri e propri condizionamenti ideologici a lungo coltivati in sede politica, nel tentativo di lucrare vantaggi elettorali e di restringere, anche solo psicologicamente, i campi d’azione altrui.
Ecco perché ieri, 25 aprile 2012, accanto a momenti solenni e perfino suggestivi di festa sincera e condivisa, abbiamo dovuto ancora registrare tensioni e scontri nelle piazze, squallidi episodi di danneggiamento contro simboli e luoghi di memorie, beceri tentativi di contestazione e di esclusione, talvolta innescati da precedenti espressioni di disprezzo per i valori celebrati. Ma soprattutto, per l’ennesima volta, il necessario clima istituzionale unitario, a cominciare dalla Capitale, è stato compromesso da assenze più o meno apertamente auspicate o suggerite, più o meno volentieri accettate o subite. In altri termini, è mancata di nuovo la possibilità di mostrare al Paese – in particolare alle nuove generazioni, teoricamente ancora immuni dalla faziosità preconcetta – l’eredità più preziosa della Resistenza: ossia la pratica dei valori condivisi della democrazia, a cominciare dalla tolleranza e dal rispetto reciproco.
Perché questo è il punto decisivo: se i discendenti politici di vecchie idee condannate dalla storia, come il fascismo, dopo un lungo percorso di emancipazione e di revisione, sono oggi alla guida di organismi rappresentativi legittimamente eletti, questo è avvenuto precisamente grazie al sacrificio di chi, da altri versanti, quelle idee ha combattuto e sconfitto. È dunque autolesionistico, oltre che ingiusto, consentire che quella vittoria venga oggi svilita dalle intimazioni di pochi facinorosi, che esigono ostracismi minacciando altrimenti violenze e boicottaggi.
In realtà certe timidezze, e magari qualche riserva mentale, affliggono tuttora una parte non esattamente piccola e marginale dello schieramento di sinistra: quella parte che, a sua volta, sembra – sembra! – aver pienamente incorporato le regole del gioco democratico solo dopo la definitiva caduta dei miti rivoluzionari del comunismo. E questo lascia affacciare il sospetto che una qualche dose di indulgenza, in favore di violenti schierati sotto bandiere lontanissime dai valori resistenziali, sia funzionale al recupero di consensi altrimenti irraggiungibili. O che, peggio, il difetto genetico prima ricordato condizioni ancora l’accettazione piena delle regole costituzionali.
Certo, il clima sociale che si respira, 67 anni dopo, in questa festa della Liberazione non è tra i più favorevoli ad accompagnare sforzi supplementari di riconciliazione. È facile soffiare sui diversi fuochi dello scontento che si accendono sotto l’incalzare della crisi economica, tanto più a fronte dei sacrifici pesanti chiesti ai cittadini per contribuire al risanamento dei conti pubblici. Eppure sono proprio questi momenti che dovrebbero ispirare, in chi si fregia in maggior misura del merito storico della riconquistata libertà, un impegno supplementare a difendere a voce alta la casa comune, a tenere alla larga chi, magari sotto altre insegne ma con le stesse armi dell’intolleranza e della sopraffazione, punta di nuovo a scardinarla.