Ma sei progressista o conservatore? In molti campi ci si sente rivolgere questa domanda. I due aggettivi vengono usati (quasi sempre con una intonazione di apprezzamento per il primo ) applicandoli in modo spesso vago e generico. Li troviamo usati dai media e nelle discussioni pubbliche a proposito della politica, della filosofia, della morale. E altre volte in modo meccanico e superficiale anche alla vita della Chiesa... Come se con due categorie tagliate così un po’ all’ingrosso si potessero qualificare pensieri, atteggiamenti, idee spesso complesse e ricche di storia.Ma se questi due termini si usano così tanto proviamo a guardarli, a comprenderli meglio. Perché non ci si squaglino tra le mani... Cosa indica in realtà l’esser progressisti? E cosa l’esser conservatori? Innanzitutto le due parole hanno senso solo se collocate in una visione del tempo come linea, ovvero come tempo che procede verso una sorta di fine, di compimento. E qui cominciano i primi problemi. L’essere "avanti" o "indietro", ha senso solo se ci si considera su una strada. Ma tale visione, accolta e elaborata secondo varie flessioni e che appartiene alla storia specialmente d’Occidente, affonda le sue radici in una visione religiosa della storia, e propriamente ebraica e cristiana. E in tali visioni, la strada ha uno scopo: conoscere Dio, congiungersi a Lui. Per questo l’unico vero atteggiamento del fedele e della Chiesa è di progredire nella fede e di conservarla. E le forze che muovono il suo cuore sono per lui le medesime. che muovono la storia.Chi invece considera la storia una specie di cerchio, di infinito eterno ritorno, o di casualità accidentale, non ha motivo di ritenere progresso o conservazione nulla. Un progresso si valuta in base a quale fine si identifica come destino della storia. E se essa ha un fine, tale fine – comunque lo si identifichi – è il "dio" di chi valuta i progressi in quella direzione. E infatti la cosiddetta "secolarizzazione" non ha negato Dio, ma lo ha sostituito con altre divinità. Quel che la Bibbia chiama idoli. Dunque, in una visione della storia secolarizzata si riterrà progresso o conservazione quell’idea o atteggiamento che avvicina o allontana dall’idolo che chi detiene il potere di fatto, e specialmente il potere culturale, determina come fine della storia.Accade così che anche di recente abbiamo un’alternanza di idee e atteggiamenti che in un certo momento passano per progressisti e poi vengono giudicati conservatori o viceversa, a seconda del potere culturale del momento. In questi casi, sembra proprio che lo scopo della storia sia il potere. Oppure alcuni professano il nulla, il caso puro, la vanvera come destino, ma anch’essi di fatto consegnano al potere e alle sue infinite maschere l’onore d’essere il dio minore di fronte a cui "praticamente" giudicare la storia. Le vicende degli uomini suggeriscono una vigilante e lucida ironia a proposito di questi rivolgimenti. Càpita – e noi italiani, ripeto, lo sappiamo bene – che nel volger di una medesima generazione certe idee e atteggiamenti che vengon tenuti per "progressisti" sian poi giudicati, magari dagli stessi che li professavano come tali, orrendamente "conservatori" quando non "reazionari", pur di non perdere le grazie del potere. D’altro canto, un importante saggio uscito in Francia negli scorsi anni, "Les antimodernes" di Antoine Compagnon, non tradotto in Italia, avvertiva sul fatto che coloro che sembravano antimoderni si sono rivelati più avanti nel capire la storia.Naturalmente, il vizio di pensare che quanto vien dopo sia meglio è facile e leggero. Peggio è il vizio di usare parole per pretendere di definire e giudicare, quando invece si usano come puri "marchi", come pre-giudizi.