Certo non si può dire che difetti di chiarezza, il nuovo primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio, nominato appena prima di Natale e destinato a restare in carica solo fino a dicembre per ragioni di età. Nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, l’expresidente della Corte d’appello di Milano è stato franco sul miglioramento della situazione nelle carceri, sui timidi progressi dei tempi dei processi civili, sull’inutilità del reato di immigrazione clandestina, sulla necessità di frenare il galoppo della prescrizione dei reati e, soprattutto, sulla «crisi d’identità» che ha diagnosticato alla stessa Suprema Corte. Proprio quest’ultimo sembra il tema più delicato del discorso, perché l’alto magistrato si è interrogato sulle prospettive di un’«autoriforma» del giudice di legittimità che, se non indirizzata con saggia misura, rischia d’imboccare la ripida e scivolosa strada dell’eccessiva discrezionalità. Non è un rischio di poco conto, in un’epoca contrassegnata da grandi questione etiche, bioetiche e biopolitiche che non di rado approdano nelle aule dei tribunali e, in ultima istanza, proprio in quelle solenni di piazza Cavour. Non è un caso se, nel suo intervento alla cerimonia di ieri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando abbia manifestato «riconoscenza per l’azione svolta nel tempo» dalla Cassazione «nella promozione dei diritti civili e delle libertà fondamentali». «Erroneamente», ha aggiunto, «si è parlato di supplenza nei confronti della politica». In effetti, storicamente, tanta parte della sinistra ha visto in quel tipo di «azione» la missione più autentica della magistratura. Per dirla ancora con le parole del Guardasigilli, «l’attività del giudice, quella di applicare la legge al caso concreto, non può sottrarsi al cambiamento. Il riconoscimento di nuovi diritti è appunto questo: l’applicazione di principi fondamentali a una società che è cambiata. La presunta supplenza si determina quando la politica non sa fare altrettanto». Ecco il nodo. E il rischio. Se la legge non c’è o 'non basta', oppure semplicemente non piace, può intervenire il giudice, anticipando, correggendo, indirizzando, sostituendo il legislatore. È accaduto per la droga, per la fecondazione assistita, per l’affidamento dei figli alle coppie omosessuali. Alla Cassazione - sostiene da parte sua il primo presidente Canzio - spetta «la definizione dei corretti criteri ermeneutici e il controllo di razionalità dell’opera di selezione della regola effettuata dal giudice di merito, al fine di evitare la deriva della giurisdizione verso l’instabilità del diritto 'liquido', in un giusto equilibrio tra la dimensione creativa e plurale del diritto giurisprudenziale e i principi di uniformità e prevedibilità della decisione». Non si nega né si nasconde, insomma, il pericolo rappresentato dal «diritto liquido». Tutto sta a stabilire il punto di 'liquefazione' delle norme... Chi decide «il giusto equilibrio», chi stabilisce il momento in cui la sentenza diventa «creativa»? Il giudice, evidentemente. Come? Appunto, con la «capacità di adeguare l’interpretazione delle norme al continuo mutare delle esigenze e dei costumi, entro i confini consentiti e alla luce dei princìpi posti dalla Costituzione». Precisazione apprezzabile, anzi doverosa, quest’ultima. Purché i «confini» siano ben definiti e non modificabili sentenza dopo sentenza, altrimenti la certezza del diritto (già molto relativa, purtroppo, nei fatti) rischia di diventare un concetto vuoto o, comunque, svuotabile. Nessuno, beninteso, può mettere in discussione l’insostituibilità della funzione nomofilattica. Ma, allo stesso modo, occorre essere decisi nel riaffermare il primato della legge, 'fatta' dal Parlamento in rappresentanza del popolo sovrano, contro le insidie della giurisprudenza «creativa».