Per comodità o abitudine si preferisce continuare a studiare solo quello che conosciamo e a trascurare ciò che non conosciamo anche quando ciò che conosciamo spiega meno e diventa progressivamente più piccolo e ciò che non conosciamo diventa progressivamente più grande. Un dato che fa impressione è che in questi anni, nonostante la durissima crisi che stiamo vivendo e che mette il segno meno a variazione del Pil e dei consumi, la domanda nel settore sanitario è cresciuta a due cifre. I settori dei servizi nella sanità e nell’istruzione oggi rappresentano nelle economie sviluppate qualcosa come il 35% del Pil, all’incirca il doppio dell’industria tradizionale. In questi settori esiste un sistema di economia mista che vede protagoniste imprese
for profit, cooperative tradizionali e cooperative sociali. Con una progressiva ibridazione verso un modello misto di imprese
low profit (a basso profitto) che creano valore economico ma hanno come focus principale quello di creare valore sociale. Ebbene, la cultura economica prevalente e, purtroppo, in Europa e in Italia, anche la prevalente cultura di governo è ancora del tutto impreparata a cogliere questo fenomeno. E le conseguenze si riflettono anche sui comportamenti dei regolatori e del settore finanziario che condividono il pregiudizio secondo il quale le imprese sociali siano più rischiose di quelle massimizzatrici di profitto.I dati sulle sofferenze (i prestiti che le banche fanno e non vengono restituiti) indicano invece un’anomalia sempre più robusta e inspiegabile sulla base della visione tradizionale. Le imprese e cooperative sociali hanno, anche in questo periodo di crisi, tassi di sofferenze sui prestiti complessivamente ricevuti sensibilmente più bassi (attorno all’1 per cento o meno) anche rispetto a quelli delle piccole e medie imprese (tra il 6 e il 10 per cento). L’anomalia è valida sia a livello aggregato che di singole banche e non dipende dalla natura dei finanziatori (siano essi banche specializzate nel finanziare la cooperazione o banche tradizionali che hanno una sezione specializzata nel finanziamento delle imprese cooperative e sociali).In realtà utilizzando meglio i pezzi di teoria economica che conosciamo la presunta anomalia non è poi così difficile spiegare. In presenza di informazione imperfetta imprenditori orientati alla massimizzazione del profitto hanno una maggiore tendenza a giocare sull’opacità e, per massimizzare i propri guadagni, possono avere la tentazione di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. L’imprenditoria sociale dovrebbe generalmente essere più attenta al benessere degli altri stakeholders dell’impresa (le persone comunque in relazione con essa) e meno propensa comportamenti opportunistici di questo tipo. Questo può contribuire a spiegare l’anomalia.Ma quale che sia la spiegazione dell’anomalia, il problema ulteriore è che la percezione dei regolatori è assolutamente rovesciata. I criteri prudenziali che essi impongono alle banche chiedono di accantonare capitale di riserva in proporzione al rischio che le banche stesse corrono nell’erogare un certo prestito (e l’accantonamento rappresenta un capitale non utilizzabile per produrre direttamente reddito ed è dunque un costo per le banche). Orbene i regolatori pesano 100 per cento (massimo rischio) i prestiti alle cooperative sociali mentre pesano 75 per cento (rischio minore) i prestiti alle piccole e medie imprese <+corsivo>profit <+tondo>nonostante i dati storici sulle sofferenze suggeriscano il contrario. Con enorme fatica, alcuni di questi pregiudizi dei regolatori tendono a essere corretti. In Italia il Fondo centrale di garanzia fino a pochissimo tempo fa non accettava di ri-garantire prestiti a cooperative sociali riducendo le coperture e aumentando i costi per le banche sugli stessi. Solo da qualche mese ha cambiato idea e ammesso alla garanzia questo tipo di imprese.C’è dunque enorme bisogno di rivedere le teorie alla luce delle "anomalie" empiriche osservate e correggere il pregiudizio che la teoria economica e i regolatori hanno per il sociale. Ed è oltremodo urgente farlo oggi, proprio mentre si discute di unione bancaria e di vigilanza unica applicata in tutta l’Unione Europea. Quale vigilanza però? Se il modello è quello che usa le ponderazioni di rischio alla rovescia e che non riconosce e tutela la diversità organizzativa delle banche e delle imprese, diversità che è fonte importantissima di ricchezza del sistema economico, i problemi saranno molto maggiori dei vantaggi.