Caro Avvenire,
in questi giorni di feste la mia mente è andata ai miei nonni agricoltori e al piccolo paese sardo dove ho passato tanto tempo, dalla tenera infanzia alla piena giovinezza: la cucina sobria di tutti i giorni, l’olio di casa, le galline, il maiale macellato da noi, la chiesetta dove ho imparato a cantare e a pregare e, certo, il pranzo di Natale con l’immancabile maialetto arrosto. Ora però abito in città e la vita è cambiata, non mangio più a mezzogiorno ma dopo le due, e spesso se voglio pranzare con mio marito devo ricorrere ad un rapido panino, o al cibo industriale. Non riesco a stare vicino agli amici e trascuro la casa, vivo in un ritmo stanco ma veloce, e così spesso ora la luce si fa avara, e amara l’anima. E cosa sono allora le domeniche e il Natale? È finalmente il momento di riposare il corpo e il cuore, di cucinare con più cura per le persone care; e le luci, quelle del mio presepio, certo sono icona lontana nella storia, ma una stella splendeva davvero, come Maria stella del mattino, come Gesù luce del mondo, sole che ben sostituisce il sol invictus dei pagani, di cui noi tutti siamo chiamati ad essere raggi e scintille, infinitamente più piccoli, ma luce del mondo anche noi, per Grazia di Dio. Ricordo un magico momento, io e un mio caro amico – eravamo adolescenti – davanti a una chiesa, quasi di nascosto, rapiti dai canti di una Novena, in una emozione che dura ancora e ancora si è rinnovata a Natale, quando volevo cantare l’ Adeste fideles con l’organo della Messa solenne, ma mi si è spezzata la voce... Nel paesino del mio cuore nessuna voce manca, e raduno ogni anno con gli auguri più sentiti la comunità di amici della mia travagliata vita di trasfertista, e per qualcuno c’è anche la strenna a cui tanti negozianti devono il lavoro. Spesso invento auguri nuovi e ai lettori di 'Avvenire' dedico ora quelli di quest’anno: il Natale appena trascorso ci porti in un vortice di speranze, verso le stelle tanto amate e il Bambino divino che da esse discende, per rimanere sempre con noi.
Gabriella Montis
Natale è passato, oggi con l’Epifania si conclude il lungo arco delle festività. In molti abbiamo vissuto pranzi e cene in famiglia, tutti attorno a una tavolata, davanti a pietanze lungamente e accuratamente preparate; o siamo ritornati a casa, nel luogo in cui siamo nati e che abbiamo lasciato. È stato dolce ritrovare parole, tempi, profumi, sapori di una volta. Ma ora il ricordo del presepe e dell’ Adeste fideles si allontanerà veloce, e, scrive la lettrice, nella vita quotidiana «non riesco a stare vicino agli amici e trascuro la casa, vivo in un ritmo stanco ma veloce, e così spesso ora la luce si fa avara, e amara l’anima». Mi pare che questa lettera ponga un tema che ci riguarda tutti: come affrontare il nuovo anno conservando in sé la memoria di quella luce, donataci in un Bambino. Come vivere nei giorni normali con la forza del Natale, dentro di sé. Perché è facile – almeno per me – riporre il presepe e l’albero, e insieme anche quel momento di pausa, di silenzio interiore, con cui ho assistito alla Natività. La festa è finita, e si ritorna alla monotona, a volte dura vita di tutti i giorni. Quella stella cometa, quella speranza sorgiva, messe via come emozioni, che nella concretezza della realtà non servono. Se in verità pensiamo questo, è alto il rischio di diventare avari, e amari. Portarsi dietro il Natale, questo sarebbe un dono grande per il nuovo anno. Mantenere la memoria di quell’istante, di quel primo vagito che tagliò il silenzio di una notte in Palestina, ma in verità aprì e sezionò il tempo in un 'prima' e in un 'dopo', per sempre. Dio si è fatto figlio di donna, Dio si è fatto bambino. Potesse lo stupore per questa nascita restarci addosso nei giorni del tempo feriale, nel logorante confronto fra ciò che vorremmo e ciò che manca, fra ciò che potremmo essere e ciò che siamo. Dio è nato a Betlemme, per accompagnarci in ciascuna delle nostre povere ore. Qualcuno, qualche pastore per un dono se lo è trovato davanti, a pochi passi; altri, come i Magi, hanno dovuto affrontare un estenuante viaggio per cercarlo, sfidando l’ignoto e il deserto e il freddo e le notti, e lo scetticismo dei viandanti, lungo la strada. Forse il nostro destino di uomini di oggi somiglia più a quello di quei re che venivano da lontano, e avevano molto da camminare, e dovevano essere certi della promessa ricevuta, e fedeli, e ostinati. Che questo Natale ci abiti nel cuore e ci rimanga con la sua speranza: che ci sia accanto, ogni sera di ogni oscuro giorno come tanti, quando, stanchi, ci pare di non avere combinato niente di buono. Che la luce di quella stella di Betlemme ci accompagni ogni giorno, e possiamo noi stessi esserne un lieve riverbero su chi ci sta accanto. Di chi magari di Cristo non sa nulla, ma ha bisogno fino in fondo all’anima di speranza – di una speranza più grande, di quella che tutti i tesori di questa terra possono dare.