L’approvazione da parte del Consiglio dei ministri del disegno di legge sul lavoro agile, meglio conosciuto come
smartworking (al quale ieri il Comune di Milano dedicava una giornata di riflessione), ha riaperto il dibattito su come cambia il lavoro grazie alle tecnologie. Da tempo studi e report internazionali, oltre alla esperienza che tutti viviamo quotidianamente sul lavoro, ci mostrano una grande trasformazione in atto, della quale facciamo fatica a leggere e interpretare esiti e direzioni ma che non possiamo più ignorare. Tutto nasce dalle possibilità offerte dalle piattaforme informatiche e dalla digitalizzazione del lavoro. Oggi molti lavori, specialmente nell’economia dei servizi, possono essere svolti in un qualunque luogo che abbia un computer e per alcuni basta anche solo uno
smartphone o un
tablet. A ciò si accompagnano nuovi modelli di business che vanno sempre più nella direzione di una personalizzazione dei prodotti, che comporta cicli produttivi sempre diversi, scardinando le basi dell’orario di lavoro fisso e immutabile. Parlare di lavoro agile significa quindi iniziare ad ammettere che le vecchie logiche novecentesche dell’orario e del posto di lavoro fisso oggi non sono più così rappresentative della realtà. Ma è importante capire che ci possono essere due approcci al tema, uno più rivoluzionario e uno più cauto e limitato. La modalità più cauta è quella di chi vuole concedere qualche spazio di libertà e flessibilità in più su luogo e orario di lavoro, mantenendo comunque dominante la logica della subordinazione. In pratica si tratta di lasciare il lavoratore più libero di scegliere da dove lavorare, concedendogli alcuni momenti durante l’anno nei quali può svolgere la prestazione da casa o in altri luoghi liberi o (spesso) concordati. Questo è sicuramente un primo passo, che riconosce come la tecnologia oggi cambi profondamente l’organizzazione del lavoro e possa aiutare i lavoratori a conciliare le esigenze di vita con quelle del lavoro, ma non basta. Si rischia infatti di restare ancorati ad una visione meramente esecutiva del lavoro dove l’apporto della persona è marginale e la dimensione del controllo è dominante per quanto allentata o a distanza. È però possibile un secondo approccio al tema, dall’effetto più dirompente, che va oltre al concetto di
smartworking come telelavoro e pratica di conciliazione vitalavoro. Parliamo di un nuovo paradigma del lavoro, che superi le logiche ormai strette del lavoro subordinato e che abbia al centro la persona del lavoratore e quello che può dare all’impresa. Non contano quindi i luoghi e gli orari, se la tecnologia permette di farne a meno, ma contano i risultati, l’interazione e le competenze. L’agilità non è quindi quella del lavoro, ma quella della persona del lavoratore. Se invertiamo l’ordine di questi fattori avremo solo nuove regole e non un nuovo lavoro. Questo non significa liberalizzare ogni tipo di regolazione del lavoro, confondendo l’agilità e la libertà del lavoratore con un modello individualistico. Al contrario, una vera evoluzione del lavoro subordinato passa dalla costruzione di una dimensione comunitaria dell’impresa, nella quale il buon andamento della stessa è obiettivo comune di imprenditore e lavoratore. Solo così si potrà passare dalla logica gerarchica del controllo alla logica comunitaria e partecipativa basata su libertà e responsabilità reciproche. Bisogna augurarsi che il legislatore italiano sia lungimirante e provi, d’accordo con le parti sociali, a intraprendere questa seconda strada, più complessa e insidiosa ma anche più nobile, innovativa e di stimolo per le nuove generazioni che sentono oggi il peso di vincoli dai quali nella vita quotidiana sono già ampiamente liberi.