Accade talvolta, in questi ultimi tempi, di veder rappresentata in televisione qualche storia, diciamo "piccante", che ha per protagonista un prete.
Anche quando non c’è reato, c’è pur sempre il peccato che provoca in chi vede e ascolta imbarazzo, sdegno, sofferenza. A voler dare risalto a simili tristi storie, non penso sia solo una certa cultura anticlericale nostrana, che pur mantiene la sua valenza. Credo sia un dovere di tutti fare uno sforzo e leggervi anche il grido di dolore e di angoscia di tanta gente di buona volontà e di tanti cattolici onesti e sinceri, preoccupati per la loro Chiesa.
Certo, non sempre questo modo di agire è il migliore. È bene che i fatti – e i misfatti – siano affrontati con serenità e competenza nelle giuste sedi. Però. Il Signore, nel quale crediamo, sempre parla alla sua Chiesa e nei modi più impensati. Che cosa, dunque, ci impedisce di credere che ci voglia parlare anche attraverso qualche trasmissione televisiva che pur ci fa soffrire? È come se tanta gente ci volesse ricordare come, in un mondo che scade sempre di più nel relativismo, anche e soprattutto morale, la Chiesa fondata sulla roccia di Cristo rivesta un’importanza fondamentale. A essa guardano non solo i suoi figli, ma anche tanti che magari sono ancora sulla soglia, nel cortile o più lontano ancora.
Troppo prezioso è lo scrigno di verità e di carità che essa custodisce; troppo alto, nobile, importante è il suo magistero per l’intera umanità. Per preservarlo, allora, occorre fare di tutto.
Anche dire con franchezza a qualche prete, con problemi di castità, che probabilmente ci fu un errore nel discernere la vocazione, e aiutarlo serenamente a intraprendere la propria strada senza fare danni a se stesso e agli altri.
Non riesco a sentirmi offeso da chi porta in televisione certi fatti incresciosi, ma solo addolorato. Sempre unisco il mio dolore quello di chi è stato tradito, del vescovo e del presbiterio del prete di cui si parla. Mi unisco al dolore del Santo Padre e di nostro Signore Gesù Cristo.
Rivado con la mente ai santi che hanno sempre avuto a cuore e pregato per i sacerdoti e per la loro vocazione, ben sapendo che essi hanno tra le mani un tesoro capace da solo di soddisfare tutta la sete di felicità e di senso presenti in questo nostro mondo. L’ideale è alto.
Troppo alto. Che faremo? Lo elimineremo perché non riusciamo a raggiungerlo? Abbasseremo il prezzo della vigna per avere più acquirenti? Ma la vigna non è nostra. E poi il problema sarebbe solamente spostato, non risolto. L’uomo è nato per fare cose grandi. Per essere un campione, cioè un santo.
Bisogna puntare in alto. Non c’è gusto per un alpinista impegnarsi a scalare una collina. Non è mai detto abbastanza: non è il celibato a creare problemi al prete così come non è il vincolo matrimoniale a rovinare la relazione tra due veri innamorati. È questione di amore. L’amore basta a se stesso. Solo chi ama è felice e sa donare gioia. L’amore vero pretende di essere totale. Si diventa preti soltanto perché si è innamorati di Gesù. È con lui che si desidera rimanere, cuore a cuore. Poi viene la disciplina, l’esercizio delle virtù, lo stile di vita. Tutto il resto, anche l’amore per i fratelli e l’apostolato, è irradiazione, conseguenza, perché l’amore vero si diffonde. Se no si rischia grosso.
Quando dopo una giornata in cui ti sei speso completamente per gli altri, ti accorgi di non aver ottenuto i risultati sperati ma solo lamenti e rampogne; quando ti aspetti un pizzico di riconoscenza che proprio non arriva; quando ti senti solo e incompreso, può anche capitare di cedere allo scoraggiamento. È allora che la creatura alla quale liberamente rinunciasti per meglio servire e amare, può insediarsi in un angolo che non le compete e che non è più tuo. È allora che si corre il rischio di smarrire la strada maestra per inoltrarsi per sentieri che non ci è dato di percorrere.
Può capitare, sì, ma solo quando Gesù, al quale abbiamo donato la volontà, l’intelletto, il cuore non occupa più il primissimo posto nella nostra vita di preti.