Nel confuso e incerto scenario politico postelettorale, ci sono alcune evidenti priorità: esplorare la possibilità di formare un governo che dia una qualche garanzia di stabilità; procedere nei tempi dovuti all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica; cambiare, se finalmente sarà fattibile, una legge elettorale che, almeno nei proclami, non piace a nessuno. Queste – per così dire – le priorità politico-istituzionali. Ci sono però anche altre priorità, che riguardano più da vicino la società e il cosiddetto 'Paese reale'. In primo piano, tra queste, c’è l’emergenza istruzione. In genere capita che in campagna elettorale i diversi partiti promettano più di quanto poi riescano a mantenere dopo le elezioni. Fa parte un po’ del 'gioco' e gli elettori ci hanno fatto il callo, imparando sempre più – come ha messo in guardia il cardinal Bagnasco prima dell’apertura dei seggi – «a non farsi abbindolare». Quanto alla scuola, però, ora è necessario che chi avrà responsabilità di governo ribalti la consuetudine: che faccia, cioè, più di quanto ha promesso. Perché tutti i partiti e le coalizioni sui temi della scuola, dell’università e della ricerca sono stati quanto mai vaghi e generici. Si sono fatti tanti buoni propositi, tutti hanno ribadito a parole la centralità di queste tematiche, ma poi, quando si è trattato di indicare soluzioni definite, si è teso a sfumare il discorso, senza proporre provvedimenti concreti. Ora, affermare che la scuola italiana sia in una situazione di vera e propria emergenza non è facile allarmismo. La situazione è sotto gli occhi di tutti: oggi, dopo le votazioni, ancora più che prima. Perché i cittadini italiani nelle scuole ci sono entrati proprio per votare e hanno potuto toccare con mano anche solo un primo dato macroscopico: il degrado dell’edilizia scolastica. Gli intonaci scrostati, le porte, i banchi e le sedie rotte, gli arredi fatiscenti, i bagni inagibili, una legge sulla sicurezza quasi completamente disattesa. Ci sono anche scuole messe magari un po’ meglio, ma sono una minoranza. Gli italiani hanno potuto vedere da vicino in quali luoghi tristi e grigi passino la maggior parte delle loro giornate (la parte che dovrebbe essere quella più qualificante) i nostri bambini e i nostri ragazzi. Ovviamente questo dato 'estetico' è soltanto la punta lampante di una situazione molto più grave: le 'classi pollaio' (fino a 32 alunni) per risparmiare sugli stipendi degli insegnanti, le dotazioni tecnologiche previste sulla carta (l’agenda digitale decisa dal governo Monti) ma mai acquistate, i fondi per i singoli istituti drasticamente ridotti. A ciò si aggiunga l’allarme, lanciato pochi giorni prima del voto, dalla Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane. «Se vi fosse una Maastricht delle università, noi saremmo ormai fuori dall’Europa», ha dichiarato il suo presidente Marco Mancini: mancano i fondi per il funzionamento ordinario delle sedi, il budget per le borse di studio non è sufficiente a garantire quanto dovuto agli aventi diritto (cioè agli studenti meritevoli e bisognosi), i docenti sempre più anziani e, con i pensionamenti non rimpiazzati da nuovi posti, in numero sempre meno adeguato a garantire una didattica accettabile. Ecco, in somma sintesi (ma molto altro ci sarebbe da dire), perché in tale situazione non si può non parlare di emergenza. Qualunque sarà la composizione politica del governo che si formerà, uno dei suoi primi passi dovrà essere quello di mettere mano al coacervo di problemi creatisi e aggravatisi negli ultimi anni. Se finora si è dovuto o creduto di dovere tagliare, è giunto il momento di reinvestire in un settore chiave per il rilancio dell’Italia.