Il debito pubblico per la sua elevatezza e per l’inarrestabile crescita è oggetto di grande attenzione da parte dei politici, dell’Unione Europea, degli operatori di mercato, di commissioni e centri di ricerca, ma anche dell’opinione pubblica. Le diagnosi sono numerose, come pure le possibili cure, che finora non hanno trovato attuazione. Il dibattito aperto da 'Avvenire' s’inserisce in questo contesto e offre interessanti contributi. I programmi che i partiti politici hanno presentato agli elettori contengono anche obiettivi ambiziosi di riduzione del rapporto debito/Pil. L’esperienza, anche quella degli ultimi anni, insegna che la realizzazione di quei programmi è quanto mai incerta, perché in gran parte basata su ipotesi di crescita del Pil in termini nominali spesso più elevate di quelle previste dai centri di ricerca. Essi puntano, insomma, su un aumento del denominatore (la ricchezza prodotta) anziché su una riduzione del numeratore (il debito accumulato).
All’alto debito pubblico corrisponde un indebitamento molto basso delle famiglie italiane, pari a circa il 70 per cento del reddito disponibile, contro percentuali doppie o triple in gran parte dei Paesi industrializzati. Se si considera, dunque, l’indebitamento complessivo, la posizione italiana risulta molto meno anomala nel panorama internazionale. Aumenti dei tassi di interesse creano, infatti, problemi per la finanza pubblica in Italia e per le famiglie in molti altri Paesi. Si pensi solo a quanto accaduto qualche anno fa negli Usa. L’alto debito pubblico rappresenta un vincolo notevole per la politica economica: esso non consente politiche espansive a sostegno dell’economia, perché può innescare timori che si crei una situazione di insostenibilità dell’onere del debito; contraddice i programmi di riduzione del rapporto debito/Pil, nonché gli impegni assunti con la Ue.
In passato, il ricorso all’indebitamento è avvenuto non solo per finanziare investimenti, come opere pubbliche, ma anche per coprire spese correnti, spesso connesse a interventi di solidarietà sociale. Pur considerando i nobili obiettivi della spesa, occorre rilevare che si tratta di una prassi economicamente scorretta, perché essa non innesca quel cruciale processo fra indebitamento e frutti dell’investimento, che consente di effettuare il servizio per interessi e per rimborso del capitale preso a prestito.
Il primo passo che occorre muovere sul fronte del risanamento, quindi, è quello di limitare il ricorso al debito per coprire spese non di investimento.
Il secondo passo è quello di stabilizzare il valore del rapporto debito/Pil, nell’immediato, sui valori attuali, in vista della sua progressiva riduzione. Non è un obiettivo ambizioso, dato che nell’ultimo triennio tale rapporto ha oscillato attorno al 132 per cento. Nel 2018 un ricorso al mercato, pari a quello medio dell’ultimo triennio, copre la spesa di investimenti prevista. Il rapporto debito/Pil, così, si ridurrebbe lievemente, dato che la previsione di crescita del Pil di quest’anno (1,5 per cento) è superiore a quella media dell’ultimo triennio.
Il terzo passo è un’iniezione di fiducia, che venga da un impegno politico forte che fissi un programma, tecnicamente credibile e fattibile, socialmente sostenibile, per porre in atto le prime concrete misure. La fiducia nutre il rapporto fra chi presta e chi prende a prestito. Se essa cresce, i risparmiatori saranno pronti a rinunciare a circa 130 punti base di rendimento, che oggi domandano per comprare Btp piuttosto che Bund, o – come minimo – a circa 40 punti base, che attualmente dividono i rendimenti dei titoli italiani da quelli degli altri Paesi dell’euro. Oggi ci sono segni evidenti di sostanziale fiducia nello Stato debitore: la facilità con cui esso si è finanziato con spread lontanissimi dai 500600 punti base di alcuni anni fa; l’allungamento della vita media del debito; l’agevole collocamento di titoli a tassi negativi, sui quali lo Stato riceve un interesse anziché pagarlo... La politica monetaria della Bce ha portato, infatti, i tassi in territorio negativo. Non accrescono la fiducia, invece, né le ipotesi della vigilanza europea, che propone limiti all’acquisto di titoli pubblici da parte delle banche, o accantonamenti in bilancio a fronte del rischio implicito nei titoli, che oggi sono considerati sicuri del rimborso, cioè a rischio zero; né le proposte di interventi forzosi sull’interesse o sul capitale, che di tanto in tanto vengono avanzate.
*Già direttore centrale per la vigilanza di Banca d’Italia (Quindicesimo intervento di una serie)
Questo articolo fa parte del dibattito sul tema del debito pubblico, convitato di pietra di questa campagna elettorale. Ecco i precedenti interventi:
• Ristretti margini di manovra. Il debito pubblico è fatto anche di rassegnazione di Federico Carli
• Debito pubblico. Uno strumento da gestire generando benessere e fiducia di Carlo Santini
• Serve impegno in Italia e Ue. La montagna del debito si scala solo in cordata di Giuseppe Pennisi
• Debito pubblico: una via concreta. Liberiamoci dagli interessi di Luca Giovanni Piccione
• Vedere la montagna del debito è il primo passo per scalarla di Nicola Rossi e Alberto Mingardi
• Non siano ancora le famiglie a pagare. Debito, il nodo serio e il prezzo ingiusto di Giorgio Campanini
• Una parte del debito va messo in comune in Europa di Angelo De Mattia
• Conti italiani. Un'operazione-verità sul debito pubblico per ottenere giustizia di Tommaso Valentinetti
• L'origine del problema. Ma il debito è frutto di interessi (ed evasione) di Marco Bersani
• Che pesi l'Unione: la verità sul debito e un piano utile di Leonardo Becchetti
• Il debito, frana incombente. Meglio evitare equilibrismi di Benedetto Gui
• Il tema eluso nel dibattito elettorale. Debito, l'ora del coraggio diFrancesco Gesualdi
• Uscire dalla schiavitù del debito. Una «patrimoniale» sull'evasione palesedi Rocco Artifoni
• Finanze pubbliche e mercati. La speculazione finanziaria ha fatto esplodere il debito di Mario Lettieri e Paolo Raimondi