In alcune stazioni ferroviarie, da qualche tempo, i pannelli dell’Istituto Bruno Leoni aggiornano i viaggiatori sul lievitare inesorabile del debito pubblico italiano: cresce di 4.469 euro al secondo, 268mila euro al minuto, 16 milioni all’ora, 386 milioni al giorno, 11 miliardi e mezzo al mese. In effetti, dal 2014 al 2017, il debito pubblico italiano è cresciuto di 138 miliardi di euro. In rapporto al Pil è aumentato dal 131,6% del 2014 al 134% di fine 2016, per scendere al 132% alla fine del 2017, grazie essenzialmente alla ripresa della produzione e del valore aggiunto segnata negli ultimi 15 mesi.
Partecipo perciò volentieri al dibattito aperto sul tema da Avvenire. Partendo da un dato: quello del debito pubblico non è un fardello che in Europa riguarda solamente l’Italia. Fatta eccezione per la Germania dove, negli ultimi quattro anni, in termini assoluti, il debito è diminuito di 63 miliardi e il rapporto debito/Pil è passato dal 76,3% del 2014 al 66,9% attuale, tutti gli altri Paesi europei hanno visto crescere questo indicatore. In gran misura a ragione della crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. In Spagna, il rapporto debito/Pil supera la soglia del 100%, passando dal 98,1% del 2014 al 100,4% del 2017, mentre nel Regno Unito il rapporto è salito dall’86,5 all’88% del Pil.
Peggio dell’Italia solo la Francia, che ha visto crescere il rapporto tra debito e Pil di 4,5 punti, raggiungendo quota 98,7%: un aumento considerevole, ma che va comunque a incidere su un debito, in rapporto al prodotto interno lordo, molto inferiore al nostro. In valori assoluti, comunque, negli ultimi tre anni, risultano in crescita tutti i debiti pubblici dei grandi partner europei della Germania: Spagna (+121 miliardi), Italia (+138 miliardi), Regno Unito (+197 miliardi) e Francia (+209 miliardi). Il problema, quindi, è europeo, ma è particolarmente grave per l’Italia: quale che sia l’esito delle elezioni, una cosa è certa, il tema dovrà essere affrontato seriamente dal prossimo governo.
Per uscire dalla trappola del debito (che frena la crescita e, quindi, l’occupazione) occorre un impegno sia nazionale sia europeo. Sotto il profilo nazionale, la strategia deve essere adottata e concordata dall’intera classe politica dirigente, non solo della maggioranza che sosterrà l’esecutivo. Sarebbe anzitutto appropriato costituire, per legge, una commissione - la cui presidenza dovrebbe essere affidata a un esponente autorevole dell’opposizione composta da rappresentanti delle forze politiche e delle istituzioni con l’obiettivo di formulare proposte specifiche per portare il debito a meno del 100% del pil entro la fine della prossima legislatura. E monitorarne l’attuazione. Una proposta in questa direzione è stata formulata in seno alla Luiss School of Government. Sotto il profilo europeo, le risorse - in gran misura non utilizzate -del Meccanismo europeo di stabilità (e dell’eventuale Fondo monetario europeo) dovrebbero essere impiegate per facilitare la riduzione del debito degli Stati dell’Unione più indebitati. Lo si può fare con forme di garanzia e di riscatto che non comportano quelle mutualizzazione del debito considerate impraticabili per alcuni membri della Ue. È in ogni caso utile ricordare che tali forme di garanzia e riscatto sono state adottate con successo nella Repubblica federale tedesca, dopo la riunificazione, per risolvere problemi finanziari dei Länder orientali.
A questi impegni dovrebbero corrispondere una gamma di misure definite nel dettaglio dalla Commissione europea. Tra queste, una potenzialmente significativa è la cosiddetta 'conversione della rendita'. L’Italia ne ha già esperienza: venne attuata, nel 1906, con grande perizia tecnica (e straordinaria rapidità) per sostituire titoli di Stato in scadenza con altri a tassi inferiori. Oggi si dovrebbero sostituire titoli pluriennali ancora in circolazione emessi negli anni Novanta (quando i tassi erano molto elevati) con titoli a tassi correnti. I detentori dei primi, infatti, hanno avuto un grande vantaggio dall’ingresso dell’Italia nella moneta unica e dal quantitave easing, grazie al conseguente forte ribasso dei tassi.
Occorre poi destinare al ripiano del debito varie forme di entrare straordinarie: quelle derivanti dalla voluntary disclosure (la collaborazione volontaria per regolarizzare la propria posizione fiscale), condoni ancora in corso, parte delle privatizzazioni del capitalismo municipale e regionale o i proventi, infine, da grandi imprese a partecipazione statale. Il «percorso è stretto», come è solito dire il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan. Ma con un impegno di tutte le forze politiche italiane e delle istituzione europee sarebbe possibile mettersi sulla buona strada.
(Dodicesimo intervento di una serie)
Questo articolo fa parte del dibattito sul tema del debito pubblico che continuerà a più voci e con diverse posizioni:
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• Una parte del debito va messo in comune in Europa di Angelo De Mattia
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