Non c’è alcun dubbio che papa Francesco, nel messaggio inviato ai partecipanti al meeting romano della "World Medical Association", abbia voluto ribadire le posizioni magisteriali sulle tematiche del fine vita e in particolare sull’ accanimento terapeutico fissate lucidamente da Pio XII, ben sessant’anni fa, e successivamente confermate da numerosi testi e documenti della Sante Sede, tra cui il Catechismo della Chiesa cattolica e la Dichiarazione sull’eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede. Ma non può nemmeno esserci alcun dubbio sul fatto che il messaggio del Papa a diversi commentatori sia apparso, almeno potenzialmente, molto innovativo e qualcuno è arrivato a sostenere (o a temere) che esso alterasse indebitamente la bioetica cattolica tradizionale.
Come si spiega questo apparente paradosso? Lo si spiega se si prende in considerazione un dato di fatto: se la dottrina della Chiesa in tema di accanimento terapeutico non è mutata negli ultimi decenni, anzi è stata costantemente riaffermata, è mutata però la lettura che ne è stata data. Il "no" all’accanimento terapeutico, nonostante le parole chiare che anche su queste colonne sono state spese soprattutto in questo già lungo avvio di secolo, è stato oggetto da parte di sin troppi avversari e purtroppo di non pochi sostenitori di interpretazioni sempre più restrittive e a volte talmente riduttive, da trasformarlo in un’esortazione, non priva di ragioni ma tutto sommato banale, ad aiutare i morenti a morire in pace, supportati da doverose cure compassionevoli. Il "no" della Chiesa all’accanimento terapeutico è ben più forte e incisivo e basta leggere i testi cui fa riferimento papa Francesco nel suo messaggio per rendersene conto. Questo "no" si sostanzia in una ferma denuncia dell’illiceità bioetica di interventi medici (ancorché motivati da generose intenzioni) che si rivelassero nel caso concreto sproporzionati, futili, indebitamente invasivi, irragionevoli, irrispettosi dell’esplicita volontà del malato correttamente informato, e tali, in sintesi, «da produrre potenti effetti sul corpo», non giovevoli però «al bene integrale della persona».
Il Papa è chiarissimo nel suo messaggio nel sottolineare quanto sia difficile prendere posizione «nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica», e quanto numerosi e complessi sono i fattori da valutare per stabilire se una determinata pratica realizzi o no una forma di accanimento. Queste difficoltà non si possono risolvere però dando un indebito spazio a quella categoria, pur nobile, ma ingenua, che definirei la "speranza terapeutica"; questa, se, applicata coerentemente, giungerebbe non solo a giustificare le più estreme forme di accanimento sul corpo dei malati, ma addirittura a favorirle o a renderle doverose.
Ribadendo il 'no' all’accanimento e legando indissolubilmente (anche in questo caso riconfermando la dottrina tradizionale della Chiesa in materia) questo 'no' a quello nei confronti dell’eutanasia e a un altrettanto forte 'no' ad ogni forma di abbandono e di «ineguaglianza terapeutica» (cioè a cure sempre più raffinate e costose per sempre meno persone…) , il Papa rivolge a tutti un forte monito perché ci si sappia calare con coraggio nelle temperie del tempo presente, nel quale, proprio perché si stanno moltiplicando situazioni laceranti e tragiche, c’è la necessità per un verso di operare per la giustizia e per l’altro di ricorrere a forme di discernimento sempre più attente, sempre più personalizzate e individualizzate. In questo contesto, la parte finale del messaggio del Papa è di notevole importanza e non va assolutamente trascurata.
Esortando tutti ad affrontare «con pacatezza e in modo serio e riflessivo» tematiche bioetiche come quelle del fine vita e insistendo sul dovere dello Stato a tutelare tutti i soggetti coinvolti e in particolare i più deboli, quelli «che non possono far valere da soli i propri interessi », il Papa insiste nel sottolineare quanto sia importante, anche in una prospettiva de iure condendo, creare «un clima di reciproco ascolto e accoglienza », tenendo conto della «diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose».
Il che equivale ad un appello perché si abbandoni quella che chiamerei un’indebita 'bioetica difensiva', che si rivela troppo pigra nella ricerca di quelle risposte nuove, che sono imposte dal nuovo che avanza. Le moderne biotecnologie, scrive il Papa, sono diventate ben capaci di sostenere le funzioni biologiche o addirittura di sostituirle, ma questo di per sé «non equivale a promuovere la salute»: esse perciò vanno valutate con pazienza, serenità e coraggio, per accettarle, quando sia opportuno farlo, ma anche per rifiutarle, quando il ricorso a esse si riveli sterile per il bene della persona.
Non c’è alcuna ragione per pensare che la dottrina della Chiesa sui temi del fine vita debba cambiare (o che sia già cambiata): è il contesto in cui essa opera che cambia incessantemente e vorticosamente e richiede che ci si interroghi con onestà intellettuale «su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete» di oggi.