A volte, spesso in buona fede, il vocabolario ammorbidisce la realtà, la attenua, si preoccupa di addomesticarla fino quasi a nasconderla. Succede quando la memoria diventa ingombrante o la consapevolezza di un peso che ci sta cadendo addosso è talmente dolorosa che, solo a pensarlo, il domani mette i brividi. Durante il lockdown è successo il contrario. La drammaticità della situazione, il buio e il silenzio che ci assediavano, non ammettevano scorciatoie, non tolleravano distinguo. Tutto appariva fuori dal comune, unico, probabilmente irripetibile. Così abbiamo chiamato eroi coloro che nell’emergenza hanno solo, si fa per dire, reso un po’ più straordinario il servizio, di competenza, di prossimità, di compassione, che già praticano ogni giorno. E di cui nell’ordinario neanche ci accorgiamo. Vale per i medici come per gli infermieri o gli inservienti degli ospedali. Vale per i preti.
Almeno 400, recita un rapporto del Ccee (Consiglio delle Conferenze episcopali europee), i sacerdoti, diocesani o religiosi, che hanno perso la vita nel nostro continente durante i mesi sinora più segnati dal coronavirus. Ma si tratta di una stima probabilmente per difetto, redatta senza particolare accuratezza scientifica, tragicamente registrata, si potrebbe dire, sul campo. Di questi,121 sono morti in Italia con le diocesi del Nord, da Bergamo a Brescia a Parma, tristi capofila.
Tra di loro forse c’era il parroco che ci ha preso le mani tra le sue quand’eravamo in crisi, il confidente cui raccontare i timori per il futuro di un figlio, l’amico che ci ha spronato a resistere mentre tutto sembrava crollare. Sono loro i pastori che ci hanno ascoltati in confessionale per benedire un rinnovato impegno a cambiare strada, le guide nella preparazione al matrimonio, quella presenza discreta capace di illuminare con la preghiera, il dono più prezioso, tante domande senza risposta.
Loro, il volto e il cuore di una carità operosa talmente radicata nel quotidiano da sembrare dovuta, quasi banale. La morte li ha sorpresi mentre cercavano vie nuove per continuare la vita di sempre, nonostante l’emergenza. Creatività pastorale l’abbiamo chiamata, ma era solo un modo per dare una coloritura più sontuosa al servizio all’uomo, quello che nella grande Cattedrale come nell’oratorio di periferia non manca mai.
Per capirlo basta andare a rileggere le storie dei preti italiani portati via dal Covid e che 'Avvenire' giorno dopo giorno ha raccontato. Voci e volti che messi uno accanto all’altro disegnano una lunghissima corona di Rosario fatta di misteri, apparentemente di dolore in realtà di gioia, perché, come insegna il Vangelo, nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici. E questi sacerdoti, dall’ultracentenario don Mario a don 'Camo' il prete dei giovani, proprio questo facevano: costruivano relazioni, cercavano ripari all’emergenza, stavano tra la gente. Anche a distanza, forti di quell’amore che non ha bisogno di troppe parole per fare breccia nei muri dell’indifferenza e del rancore, così da vedere oltre il bisogno immediato e regalare acqua fresca alla pianticella della solidarietà, perché possa crescere. No, non chiamiamoli eroi, questi innamorati dei giorni, di ogni giorno e di ogni notte che Dio regala all’uomo, buono o cattivo che sia. Erano semplicemente preti e religiosi, generosi servitori del Signore e della Chiesa e come tali vicini a ogni persona, a cominciare dai più poveri. Gli ultimi, i diseredati, i maltrattati dalla storia che oggi sono la loro eredità, fatta di preghiera e carità, fatta di una memoria che chiede di restare viva.
Come capita ai martiri, ma è un’immagine troppo impegnativa, che forse crea distanza. Meglio chiamarli testimoni, parola che nasce dalla stessa radice ma riesce più semplice, più calda, com’e stata la loro presenza. Testimoni sì, del Vangelo e dell’amore. Testimoni della vita. Che si fa dono.
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