Pentastellati alla prova tra il pendolo e il timone
martedì 30 giugno 2020

Il bivio è secco e netto: o M5s affronta e supera la prova di maturità del Mes e del posizionamento europeo o la legislatura arriva all’ennesimo punto di crisi. Nel cuore della pandemia, nel cuore di una crisi socio–economica lancinante. Il vicolo stavolta è davvero cieco. Tutte le vie di fuga dei rinvii e dei “vedremo” sono murate.

Se il Movimento non si dimostrerà capace di assumere la nuova «dottrina–Grillo» – la linea del partito responsabile e “centrato”, che la smette di oscillare tra destra radicale ed europeisti –, se in sostanza scapperà dall’inesorabile dovere di dare stabilità al Paese nel suo momento più drammatico, l’attuale coalizione imploderà e si apriranno scenari politici imprevedibili. Il rischio è noto: una ulteriore spaccatura nel Movimento, ancora oggi di gran lunga più forte in Parlamento alla luce del pieno di consensi ottenuto alle politiche del 2018. Una spaccatura che però sta avvenendo di fatto, anche senza assumere le decisioni che occorrono: da un lato c’è il lavoro corrosivo interno di Di Battista e Paragone, dall’altro c’è l’esca da fuori di Matteo Salvini, che, indebolito nei sondaggi da un anno di opposizione, cerca in tutti i modi di tornare al centro del gioco politico (e degli scenari di governo) ora che, per di più, sono in arrivo i miliardi di euro dal Recovery Fund europeo.

Il leader della Lega, mentre chiama a sé i grillini scontenti, non trascura di lanciare messaggi ai vertici del Movimento “nostalgici” del governo giallo–verde, quegli esponenti ancora convinti che dire «non siamo né di destra né di sinistra» possa autorizzare un nuovo clamoroso “pendolo”, stavolta dal Pd al Carroccio. In realtà, questa “indefinitezza” del Movimento, da punto di forza elettorale, è diventato un punto di debolezza nella prova di governo. M5s ha perso voti quando era alleato con la Lega per la cedevolezza sui temi della sicurezza. Non li sta riprendendo ora che sta con il Pd perché non dà compimento preciso – contenutistico e politico – a questa alleanza. Perciò forse varrebbe la pena assumere una strategia diversa, quella di “definirsi” con più chiarezza, anche alla luce di un inevitabile scenario proporzionale in cui centrali saranno le forze politiche in grado di garantire la governabilità. Lo sta dicendo Beppe Grillo.

Ci sta lavorando ormai da un anno il premier Giuseppe Conte, con risultati alterni e una regia forse segnata da un eccesso di ottimismo, dato che ora, in un sol colpo, il partito di maggioranza relativa di tabù ne deve infrangere diversi: Mes, Autostrade, Ilva, mercato del lavoro, giustizia… risposte procrastinate troppo a lungo. Molti osservatori in questi giorni ricordano che la crisi del governo giallo–verde nacque formalmente, a inizio dello scorso agosto, da un voto “di bandiera” dei 5s sulla Tav, che tra l’altro non fermò l’opera. Se di qui a qualche settimana dovesse verificarsi la stessa situazione paradossale sul Mes, il Movimento, nei fatti, si assumerà la responsabilità oggettiva di aver buttato via la golden share (ovvero il suo peso decisivo) della legislatura, se non la legislatura tout court. In ogni caso, se il M5s non si decide su un prestito europeo conveniente sotto molteplici aspetti (”condizionato” ormai solo dalla finalità sanitaria) e a cui resta ostile a prescindere per un residuo oggettivamente ideologico (quel «ci vogliono fregare…» che allude più che argomentare), allora dovrà decidere il premier Giuseppe Conte.

Persino andando in Aula “al buio”, provando a raccogliere sulla strategia europea complessiva (Mes compreso) e intorno alla sua figura numeri nuovi ed eterogenei che poi andrebbero interpretati, anche dal capo dello Stato. Il bivio sembra segnato: o la definitiva maturazione del Movimento (e molto passa ancora attraverso il suo riferimento principale, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che certamente avrà raccolto dalla rete diplomatica europea e internazionale tanti elementi di merito interessanti, anche sul Mes) e insieme un atto di coraggio di Conte, oppure soltanto quest’ultimo. E il momento è adesso, mentre l’ultracopertura politica della Ue e finanziaria della Bce tengono ancora ferme eventuali fibrillazioni sui mercati. In autunno – o forse già nel volatile agosto – potrebbe non essere così. È questo il senso anche degli ultimi messaggi di pressione provenienti dal Partito democratico, che tra l’altro hanno anche portato a un nuovo e inaspettato dialogo tra dem e Matteo Renzi.

Nicola Zingaretti ha azionato un conto alla rovescia che finisce il 20 settembre da quando ha intuito che il Movimento non riesce a offrire certezze non solo sull’agenda europea, ma anche sulle alleanze politiche sui territori (che pongono il centrodestra in condizioni di vantaggio alle prossime Regionali) e, soprattutto, sul profilo del futuro capo dello Stato e sul “metodo” per eleggerlo. Più si perdono nelle nebbie questi obiettivi, più è a rischio la posizione stessa del segretario dem e il partito nel complesso non vedrebbe alcuna convenienza nel caricarsi sulle spalle l’autunno caldo e un governo in stallo. In fondo, anche gli alleati chiedono al partito che ha più numeri in Parlamento, M5s, ciò che un Paese in ginocchio chiede al proprio governo: non un pendolo, ma un timone.

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