Se davvero verrà mantenuta questa formulazione, la nuova Costituzione tunisina rappresenterà una prova evidente di come la discussione e il compromesso, per quanto difficili e impegnativi, siano una via che dà più frutti del muro contro muro e della prova di forza. In questi giorni, l’Assemblea nazionale sta faticosamente redigendo gli articoli della futura Carta, con risultati che fanno ben sperare. L’articolo 1 sottolinea il fatto che la Tunisia è una Repubblica araba di religione islamica. Ma non si fa alcun riferimento – come avrebbero desiderato i partiti islamisti – alla sharia quale fonte di riferimento del diritto. L’articolo 20 sancisce in termini chiari la parità di diritti e dovere di uomini e donne, senza discriminazioni da parte della legge. Una vittoria per il fronte liberale e per tutti gli intellettuali e i politici che in questi due anni nel Paese hanno contrastato – talora sfidando minacce e violenze – i tentativi di "islamizzazione" dogmatica da parte di Ennahda, il partito islamista al governo, o dei movimenti estremisti salafiti. In realtà, quanto si scrive oggi a Tunisi non può essere visto come una novità rivoluzionaria, dato che – dopo l’indipendenza negli anni 50 – il Paese si era incamminato su di una strada di riforme legislative e sociali che l’avevo posto fra gli Stati all’avanguardia in Medio Oriente. E solo pochi anni fa, il Marocco – per fare un esempio – ha varato un codice di famiglia e una nuova Costituzione che vanno in questa direzione, nonostante la sua società sia più tradizionalista di quella tunisina. Ma certo, in una regione scossa dai venti del settarismo e del radicalismo religioso, si tratta di una buona notizia. Soprattutto se si pensa alle tensioni e alle spinte involutive che la Tunisia ha affrontato dopo la cacciata del dittatore Ben Ali e la vittoria di Ennahda alle elezioni del 2012: le violenze contro i liberali, le prove di forze del governo islamista, con il tentativo di imporre a forza la propria visione di Stato su di una popolazione sempre più perplessa. E poi le proteste di piazza contro una politica che polarizzava la società e ne marginalizzava interi settori : la sensazione insomma che la rivoluzione e la primavera tunisina venissero "scippate". A un certo punto si è rischiato che la situazione sfuggisse di mano, così come avvenuto in Egitto. Ma a differenza di quanto successo al Cairo, a Tunisi ci si è saputi fermare per tempo. Il governo islamista ha capito che doveva confrontarsi anche con le parti della società tunisina che meno gli erano congeniali, come gli intellettuali laici, le organizzazioni femminili, la società civile. E da questo confronto è nato un percorso che darà presto una Costituzione riconosciuta dalla grande maggioranza della popolazione. Dopo la sua approvazione, il primo ministro Ali Larayedh ha anche promesso di lasciare il posto a un governo tecnico che porti il Paese a nuove elezioni. Una strada ben diversa da quella fallimentare scelta in Egitto. Ove, tanto le rivolte quanto gli avvenimenti successivi sono stati molto simili a quelli tunisini: dalla cacciata del dittatore all’euforia per la primavera politica fino alla vittoria elettorale dei partiti islamisti. E analoghi anche i tentativi di imporre un’agenda di governo che ha lacerato il Paese. Ma in Egitto, dinanzi alle proteste e alle richieste di dialogo, il presidente Morsi ha tirato innanzi, fino a far approvare di stretta misura una Costituzione in cui troppi egiziani non si riconoscevano. Sappiamo come è andata a finire: il colpo di Stato, i morti, la scelta dei militari di tentare di schiacciare con forza la Fratellanza; una decisione che sarà foriera di altre sventure. La piccola, fragile Tunisia sembra aver avuto la saggezza di frenare prima dello scontro. E le sue parti contrapposte hanno saputo ascoltarsi reciprocamente. Fra i tanti disastri del Medio Oriente odierno, una strada da incoraggiare e tutelare.