Per chi, come me, insegna a scuola, i risultati della nuova indagine Ocse-Pisa non sono una sorpresa, poiché fotografano una situazione alla quale ci troviamo di fronte tutti i giorni. Ciò non significa, però, che l’incapacità manifestata dagli studenti italiani nel comprendere i testi scritti non debba preoccuparci. Deve allarmarci più ancora, poniamo, di un’eventuale difficoltà a scrivere. Perché nella vita quotidiana non tutti hanno occasione di scrivere, ma tutti hanno necessità di leggere, ascoltare e capire. Si tratta infatti di una fondamentale "competenza di cittadinanza", per stare nella società a pieno titolo: comprendere che cosa dice un politico in tv oppure i contenuti di un articolo di cronaca o ancora la tesi dell’editoriale di un giornale sono abilità indispensabili per informarsi e decidere. Non su questioni astratte, ma sulle cose che hanno a che fare con la vita concreta.
Di chi è la colpa di una situazione come quella descritta dell’indagine Ocse-Pisa? I fattori in gioco sono molteplici. A monte c’è una generale iper-semplificazione del linguaggio, la quale fa sì che, messi di fronte a un testo solo un po’ complesso, molti si trovino disorientati.
E non parlo solo dei ragazzi: ci sono preoccupanti scenari di analfabetismo di ritorno, che spesso riguardano anche chi possiede un titolo di studio medio-superiore. Il processo, denunciato da intellettuali come Calvino e Pasolini già negli anni 60 del secolo scorso (in concomitanza con il boom economico), è andato molto avanti, determinando un abbassamento qualitativo della lingua usata dagli italiani, che a sua volta inibisce la capacità di comprensione di testi un minimo complessi. Sebbene alcuni studiosi sostengano che l’istituzione scolastica intervenga solo per un misero 5% sulla formazione dei giovani, non c’è dubbio che la scuola sia chiamata a rispondere in prima persona su questo tema. Insomma, se crediamo nella possibilità di crescita di un Paese, non dobbiamo smettere di scommettere sull'insegnamento.
Prima ancora di parlare delle criticità, mi piacerebbe raccontare che cosa gli insegnanti, ben consci della situazione, stanno cercando di fare, e da diversi anni. La didattica dell’italiano, dalla scuola primaria alla secondaria di secondo grado, è sempre più indirizzata nella direzione delle competenze. Le prove scritte di Italiano all'esame di maturità (fase finale del processo formativo a cui è necessariamente orientato l’intero percorso) sono di tre tipologie, le prime due delle quali (l’analisi e interpretazione di un testo letterario e l’analisi e produzione di un testo argomentativo) partono proprio da domande di comprensione. La scuola ha consapevolezza che capire ciò che si legge è un punto imprescindibile, la fase preliminare di ogni tipo di apprendimento.
Poi, certo, varie cose potrebbero essere migliorate. Soprattutto alle superiori, molti dei testi oggetto delle lezioni di Italiano sono brani letterari, spesso in versi. Tale centralità della letteratura è una peculiarità italiana, poiché negli altri Paesi europei ed occidentali, in particolare negli istituti tecnici e professionali, la parte letteraria è nettamente limitata rispetto a quella linguistica. Pur senza rinunciare troppo frettolosamente alla presenza della letteratura nei nostri curricula, dovremmo senz'altro aumentare la lettura di testi non letterari: è necessario che nella scuola entrino più massicciamente i linguaggi dei giornali, del cinema, della tv, dei nuovi media, dell’attualità, della politica, della cittadinanza. L’insegnante non deve immaginare studenti diversi da quelli che ha, impancandosi a laudator temporis acti, magari auspicandoli a immagine e somiglianza del se stesso adolescente di trenta 30 o 40 anni fa.
Accanto ai limiti, i giovani di oggi hanno straordinarie risorse: aspettano solo di essere motivati e guidati. Si tratta di non deprimersi, ma di rimboccarsi le maniche, dandosi da fare, ciascuno nel proprio ruolo e per la parte che gli compete, per affrontare i problemi e, possibilmente, per collaborare a risolverli.