«Siamo sommersi di abbracci» ha detto in questi giorni il vicesindaco di Arquata del Tronto. Un tributo di amore e di prestissima cura da parte di volontari e istituzioni. Una cronaca dolce e grata che rompe l’amarezza della sciagura, un cantuccio di aurora che si apre nelle gole oscure delle notti dei terremotati. Guai se non ci fosse! Non resterebbero che grida e lamenti come segni residui di vita. Grida nel vuoto e lamenti senza orecchio. «Mentre scivolavamo nelle cantine della nostra casa, le voci di chi rispondeva al nostro appello si facevano sempre più lontane, finché non c’è stato un grande silenzio… io e mia moglie ci tenevamo per mano e gridavamo più forte, sperando che qualcuno riuscisse ancora a sentirci…». È la testimonianza di una coppia di superstiti. Per una casuale, ma simbolica coincidenza, a un certo punto, il numero dei
sommersi è andato a coincidere con quello dei
salvati : 268 i primi, quasi altrettanti i secondi. Quelli per la violenza, questi per la 'carezza'. Vedere le mani dei cercatori e soccorritori è stato davvero commovente: nude e delicate anche sui detriti, pur sulle assi di cemento o di legno, morbide su tanta mortale durezza, timide nel timore di causare un’ulteriore caduta e un danno più grave a chi fosse stato, ancora vivo, lì sotto. Ma anche a chi fosse già morto: straordinario è apparso il rispetto verso i cadaveri; sacro il gesto di chi voleva riconsegnare ai suoi cari la dignità delle persone e degli affetti. Davvero una carezza il silenzio e il sorriso dei soccorritori sui volti degli anziani, sulle rughe sporche di argilla e di sangue delle donne e degli uomini. E poi i bambini e la gioia di chi li ha potuti salvare! «I bambini prendono il cuore! Sono la luce» ha detto un vigile del fuoco. E un altro, un giovane che ha avuto, ugualmente, la fortuna di salvare una bambina, ha confidato: «Io non ho figli, ma oggi sento di averne acquistato uno!». Sì, chi salva la vita è pari a chi la genera. Anzi, è molto di più: un plusvalore incalcolabile è, infatti, quello di chi riacquista la vita, dopo aver rischiato di perderla. Un centuplo quaggiù! E specialmente quando si tratta di bambini. La morte dei bambini, per qualsiasi ragione avvenga, è inaccettabile. Tutti lo sanno, le donne e le madri lo denunciano. Mi ha morso il cuore sentire la voce rauca, quasi un ruggito, di una nonna che ha visto la sua nipotina cedere sotto le macerie e lei, invece, restare viva. Inconsolabile. Dinanzi alla morte di un figlio, la stessa sopravvivenza della madre diventa un urto. La sofferenza dei bambini, le atrocità che essi subiscono segnano ferite profonde sull’anima umana, che vengano da un terremoto, o dalla mano diabolica dell’uomo. Si precipita nella mente una folla di immagini di tanta folle violenza, perpetrata sulla carne dei bambini. Quella che ha fasciato il ventre tenero del piccolo kamikaze nella Kirkuk di pochi giorni fa. Un video cui non si può assistere sino alla fine senza finire psicologicamente a pezzi! Il delirio che de-porta centinaia e centinaia di piccoli uomini a seguire le istruzioni della guerra, accompagnati dai loro stessi padri! Padri che spengono il futuro delle proprie famiglie, nei corpi dei loro cuccioli che non diventeranno mai grandi. Per questo le lacrime delle madri sono inconsolabili. Acute come lame che tagliano il Cielo e lo interpellano. Aspre e tenaci come acqua che sfida e scava la roccia. Giuste come la Bellezza della vita, che non permette a nessuno di essere giustificato. Neppure a Dio! No, non credo alla terra matrigna. La Bibbia dice che «anche la creazione geme e soffre nelle doglie del parto». Non credo che la splendida regione del passo dello Scandarello nasconda nel suo seno un’anima crudele. La madre terra ha bisogno d’essere soccorsa e salvata, a sua volta, «nella speranza», come conclude Paolo nel suo meraviglioso testo della Lettera ai Romani (cf.
Romani 8,20ss). Anche la terra, che ha tremato, piange insieme alle nonne reatine. E l’eco che si diffonde è quello dell’antica Rachele, la matriarca che morì di parto, di cui il profeta dice: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più». La madre chiude gli occhi e leva, insonne, il suo pianto che trova un contrappunto nel grido di Gesù sulla Croce: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». Dimmi un motivo, dammi una ragione, dimmi perché!? Non della croce, ma dell’abbandono. E in una scena sublime ecco Dio che soccorre: lo fa curvandosi sulle lacrime di Rachele. Si mette accanto, le parla, la esorta, quasi la supplica: «Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime, perché c’è una speranza per la tua discendenza» (cf.
Geremia 31,15-17). Non sappiamo se Rachele avesse alzato la testa, aperto gli occhi e creduto a quelle parole dolcissime e impossibili che come vele si posavano sul mare immenso delle sue lacrime. Ma la Scrittura dice che Dio c’era. Che non la abbandonava, che restava a parlarle, a consolarla, a fecondare le sue lacrime di vita non solo per sé, sopravvissuta, ma anche per i suoi figli, cui era stato rubato il respiro. «Siamo sommersi di abbracci, in queste ore, ma vi supplichiamo di non andare via… non lasciateci soli» ha completato il suo appello il vicesindaco. Che nessuno chiuda l’orecchio e ognuno si faccia, come può, compagno di quel Dio che si curva, amico, sposo e padre, su Rachele. Perché Rachele possa credere e sperare.