Non basta sapere che sessant’anni fa al Bois du Cazier, la miniera di carbone di Charleroi, morirono 262 uomini, fra cui 136 italiani. Non basta ricordare che quelle persone si erano decise a varcare i confini della Patria per cercare un lavoro e condizioni di vita migliori. Non basta fissare nella memoria le corrispondenze storiche e geografiche fra ieri e oggi: io, ad esempio, potrei citare la storia di mio nonno materno, Alfredo Cavina, il quale, prima di venire fucilato dai nazisti, era stato a lavorare proprio in Belgio, rischiando di finire schiacciato sotto le impalcature. Non basta, davvero. Certo, ogni nostro connazionale dovrebbe andare in visita a Ellis Island, lo scoglio roccioso nella baia di New York, dove sbarcavano gli immigrati in cerca di fortuna in America: se passasse in rassegna la lista di nomi sul muro posto di fronte all’ingresso, con ogni probabilità troverebbe notizia di qualche suo parente nemmeno troppo lontano. Eppure anche questo non basterebbe.
Arriva un momento nella vita in cui dobbiamo capire cosa fare del nostro passato: lasciarlo dietro alla maniera di una carcassa destinata a marcire? Metterlo nella bacheca dei trofei e delle coccarde? Scriverci sopra un bell’articolo? Sarebbe meglio prendere atto di un fatto assai più decisivo: tu cerchi i luoghi da cui provieni e poi magari, come nel caso in questione, li trovi sul serio. Quella è la nostra stazione di partenza: eravamo sudati, sporchi e affamati, esattamente come Mohamed e Ismail. Allora ti accorgi che le tue radici non alimentano soltanto te, ma danno sostegno e nutrimento a ognuno. Conquistare la consapevolezza di tale coralità sembra essere diventato sempre più difficile. Eppure per i nostri padri era semplice: siamo tutti nella stessa barca, dicevano. Ecco, se fai vibrare la pianta del tuo fiore, è come se smuovessi l’intera foresta: quante volte ci ho pensato!
Forse è questa la ragione per cui, qualche mese fa, quando don Giusto della Valle, parroco di Rebbio, frazione di Como, mi invitò a parlare ai suoi volontari che insegnavano gratis l’italiano agli immigrati, dopo averli conosciuti e ammirati, chiesi al prete di farmi vedere la canonica. L’ex missionario (è stato tanti anni in Camerun) mi mostrò una stanza: c’erano una decina di africani chini sui libri accanto alle giovani professoresse che ne guidavano gli esercizi. Ma tu, chiesi al mio accompagnatore, dove dormi? Là dietro, mi disse don Giusto, indicando un bugigattolo invaso da libri e cartoni. Negli occhi di quei disperati appena arrivati da noi ho idealmente stretto la mano a mio nonno: mi sono sentito come Rosso Malpelo, nell’omonima novella di Giovanni Verga, quando, nel tentativo di recuperare il corpo del padre sepolto nella cava di zolfo, si fa venire il sangue alle unghie. Se uno prova una sensazione simile, non può tornare a casa indifferente.
È necessario prendere posizione: assumere la responsabilità dello sguardo altrui. Da quel giorno a Como i migranti non hanno fatto che aumentare: ora non sanno più dove metterli. I don Giusto non possono tappare tutti i buchi. A Ventimiglia siamo nella stessa situazione, coi ragazzi che, stremati dall’attesa, si gettano in acqua per raggiungere a nuoto la Francia, vengono rimandati indietro e rischiano di essere “sanzionati”. È vero che ogni generazione ricomincia da capo, come se niente fosse accaduto e la storia umana contasse davvero poco, tuttavia almeno una piccola cosa concreta non dovremmo mai dimenticarla: anche i politici e gli amministratori non possono fare tutto da soli. Ce ne sono di ogni risma, lo sappiamo: bravi e incapaci, corrotti e generosi. Ma di fronte all’emergenza è necessario intervenire subito, senza aspettare i rinforzi.
Certo, si spera che presto arrivino le leggi appropriate, i centri di accoglienza e smistamento, i supporti logistici e sanitari. Ma se putacaso non arrivassero proprio, noi almeno avremmo fatto ciò che potevamo. E Marcinelle non rischierebbe di restare soltanto un doloroso anniversario.