martedì 14 gennaio 2014
Custodia cautelare primo passo di una marcia necessaria
di Danilo Paolini
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Dunque, dove eravamo rimasti?». È una frase celebre per un motivo assai triste. Sono le esatte parole che il giornalista e presentatore Enzo Tortora rivolse al suo foltissimo pubblico quando poté tornare in tv dopo essere stato assolto dalle ingiuste e infamanti accuse che gli erano state rivolte da alcuni pregiudicati e camorristi, prese per buone dalla procura di Napoli.Ed è difficile trovare parole migliori, per cercare di riprendere il filo di una trama, quella del dramma giudiziario e carcerario italiano, che sembra interrompersi e riannodarsi giorno dopo giorno, all’infinito e finora senza che si possa almeno sperare in un finale accettabile. Prima di vedere riconosciuta la sua innocenza, Tortora fece sette mesi di carcere preventivo e altri agli arresti domiciliari, subì un processo che durò quattro anni. Pochi mesi dopo l’assoluzione morì, consumato da un cancro.
Quella sera, il 20 febbraio del 1987, tornando a condurre il suo amato Portobello, Tortora tenne a dire che avrebbe parlato anche «per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi». Si riferiva naturalmente agli sconosciuti che finiscono in carcere da innocenti o, comunque, senza una condanna definitiva. Già allora erano «molti» e «troppi». Proprio come oggi, trent’anni dopo: i dati ufficiali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, aggiornati a una decina di giorni fa, ci dicono che ben oltre un terzo dei detenuti (quasi 23mila su un totale di 62.500 e una capienza regolamentare di 48mila) è in attesa della sentenza decisiva e, tra questi, poco meno della metà (11.100) attende il primo processo.
Perciò, per rispondere alla domanda iniziale, potremmo dire che eravamo rimasti all’8 ottobre scorso, quando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano decise, con il suo primo (e, per il momento, l’unico nel corso dei suoi due mandati) messaggio alle Camere, di richiamare la politica «all’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio» alla situazione di permanente sovraffollamento e di violazione della dignità umana vigente negli istituti penitenziari del nostro Paese. Si tratta di «un dovere morale» – ha aggiunto pochi giorni fa, a ridosso del Natale – oltre che di un dovere nei confronti dell’Europa intesa nella sua accezione istituzionale più ampia (non la Ue, ma il Consiglio d’Europa che riunisce 47 Stati e, in particolare, la sua Corte di Strasburgo sui diritti dell’uomo), la quale ha dato tempo all’Italia fino al 28 maggio 2014 per rimediare a quella che ancora il capo dello Stato ha definito più volte «una condizione umiliante sul piano internazionale per violazione dei principi sul trattamento umano dei detenuti». Dopo quella data, se il sistema carcerario italiano non dimostrerà di essere uscito dal suo stato di annosa irregolarità (anche rispetto al dettato delle nostre leggi nazionali, in primis della Costituzione), lo Stato dovrà sborsare centinaia di milioni di euro in risarcimenti a tutti i detenuti che hanno fatto ricorso alla Corte europea di Strasburgo. Un sovrappiù di deficit finanziario che andrebbe ad aggiungersi al deficit di legalità e di umanità.
Ecco, dunque, dove eravamo rimasti. Alla solennità del richiamo del Quirinale (come all’accorata insistenza dei suoi appelli, precedenti e successivi) non ha fatto seguito quella frenetica attività parlamentare che ci si poteva aspettare leggendo i commenti a caldo di esponenti di tutte le forze politiche rappresentate a Palazzo Madama e a Montecitorio. Anzi, a distanza di oltre tre mesi dal messaggio di Napolitano e a poco più di quattro dalla scadenza di Strasburgo, nessuna delle due Camere ha messo all’ordine del giorno un dibattito sulla questione. Del resto, non è inverosimile né offensivo pensare che tutto si sarebbe risolto nell’ennesimo, sterile scontro «amnistia sì, amnistia no», «indulto sì, indulto no», rimedi per altro del tutto «straordinari» che lo stesso presidente della Repubblica ha messo al terzo e ultimo posto tra quelli ipotizzati nel suo messaggio. È già accaduto nel settembre del 2011: il Senato dedicò una sessione speciale dei suoi lavori alla situazione carceraria, poi non accadde nulla.Non sarebbe corretto, allo stesso tempo, ignorare gli sforzi che la politica sta facendo per decongestionare il circuito carcerario. Due piccoli passi, infatti, governo e Parlamento li hanno compiuti. Il primo è il "decreto Cancellieri", ora in fase di conversione in legge da parte delle Camere, che – utilizzando le leve della liberazione anticipata, dell’affidamento terapeutico dei reclusi tossicodipendenti e delle espulsioni dei condannati extracomunitari – sta dando i primi frutti: dalla sua entrata in vigore, il 24 dicembre, il numero dei detenuti è sceso in media di 200 a settimana.
Il secondo passo, ancora a metà, riguarda proprio l’istituto della custodia cautelare dal quale abbiamo cominciato il nostro ragionamento: il 9 gennaio, l’Aula di Montecitorio ne ha approvato la legge di riforma, ora passata al vaglio del Senato per il "sì" definitivo. Senza scivolare nei particolari tecnici, il testo introduce una serie di limitazioni al ricorso alle "manette preventive". Infatti, nonostante il codice di procedura penale la consenta soltanto in presenza di tre pericoli (inquinamento delle prove da parte dell’indagato, fuga dello stesso, reiterazione del reato o commissione di altri gravi delitti), l’elasticità di valutazione sulla concretezza di tali pericoli da parte dei magistrati ha portato a un largo uso, quando non a un abuso, della custodia cautelare. Dopo il caso Tortora venne Tangentopoli e riguardo ai tempi più recenti, per motivi di spazio, ricordiamo qui soltanto la vicenda di Silvio Scaglia: il fondatore di Fastweb, arrestato nel 2010 per fatti risalenti al 2005-2006, è rimasto detenuto in attesa di giudizio per un anno (tra cella e domiciliari) prima di essere assolto in primo grado con formula piena, il 17 ottobre scorso, dall’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale. Ecco perché la riforma della custodia cautelare è un provvedimento atteso da tempo da tutti coloro che si ostinano a credere nello Stato di diritto, al di là delle perplessità dell’Associazione magistrati sul ruolo di «monitoraggio» assegnato al governo e delle accuse di «eccessiva timidezza» avanzate dall’Unione degli avvocati penalisti. Ma resta il fatto che, pur trattandosi di un provvedimento finalmente strutturale, il suo iter legislativo sta procedendo soltanto ora (sono anni che se ne discute), nel quadro della lotta al sovraffollamento carcerario. Insomma, lo spirito è al solito quello emergenziale, con il rischio di mettere l’ennesima pezza su una coperta che di rammendi è già piena.
Occorre perciò affrontare al più presto l’altro capo del problema, quello della giustizia inceppata. Anche per non instillare un senso d’insicurezza in quei non pochi cittadini ormai abituati (erroneamente) a vedere nel carcere preventivo l’unica effettiva forma di giustizia. Uno Stato di diritto si vede sia dalle garanzie che prevede per l’indagato, sia per la certezza della pena inflitta, in tempi ragionevoli, al colpevole.
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