Sconfitto da un male che nemmeno i volenterosi medici cubani hanno saputo domare, l’ultimo caudillo lascia il suo trono terreno dal quale ha saldamente esercitato il proprio potere poggiando su quattro pilastri: un mare di petrolio che copre il 75% delle entrate statali, un inarrestabile diluvio di demagogia, una forte dose di populismo di stampo neoperonista e un ferreo controllo di tv e giornali, grazie ai quali aveva costruito pezzo per pezzo quel panamericanismo bolivarista modellato sul mito del Libertadór e parallelamente sul «riscatto dalla sudditanza yanqui».
Miele per il cuore di un continente da sempre percorso da sentimenti ambivalenti nei confronti di Washington e del Nordamerica, ora visto come modello irraggiungibile di sviluppo e di ricchezza ora come eterno feudatario che conserva geloso le chiavi del 'cortile di casa'. Non a caso il bolivarismo di Chávez faceva scuola e proseliti. E non parliamo soltanto del boliviano Juan Evo Morales Ayma, del sandinista Daniel Ortega o dell’ecuadoriano Rafael Correa, diversissimi fra loro per estrazione e cultura ma ugualmente partecipi di quel socialísmo nacionál che Chávez mise in cima alla propria agenda politica.
Il suo attivismo demagogico e scarsamente rispettoso delle regole democratiche finì con il nazionalizzare tutto ciò che era possibile (60 compagnie petrolifere nella Faja de Orinoco, l’immenso serbatorio di idrocarburi del Venezuela, a cominciare dalla Pdvsa, oltre alla Compañía Anónima Nacional de Teléfonos de Venezuela e alla Electricidad de Caracas) in modo da consentire allo Stato l’elevata spesa sociale a favore delle classi meno abbienti, ovvero al 90 per cento dei cittadini venezuelani, un terzo dei quali abbondantemente sotto la soglia di povertà.
Poteva questo caudillo uscito non da Harvard o da Yale e nemmeno dall’Università dell’Illinois come Correa, bensì dal corso paracadutisti dell’Academia Militar de Venezuela e convertitosi a un’ibridazione fra marxismo e populismo, non suscitare la curiosità di Fidel Castro? E poteva Chávez sottrarsi allo sguardo compiaciuto del Comandante en jefe, quell’intramontabile fratello maggiore che lo accoglieva come uno di famiglia all’Avana e con il quale concludeva un vantaggiosissimo baratto: medici e personale sanitario – l’eccellenza di Cuba nel firmamento latino-americano – in cambio di petrolio? Certamente no.
E mentre stringeva amicizia con l’iraniano Ahmadinejad e minacciava un giorno sì e uno no la Chiesa cattolica venezuelana (con la quale si riconcilierà negli ultimi mesi della malattia), Chávez s’impadroniva grazie a Fidel dei segreti del populismo mediatico: ore e ore di talk show televisivi lo vedevano protagonista assoluto nella trasmissione 'Alò Presidente' esattamente come il Líder Máximo, insuperato e infaticabile oratore, capace di maratone senza fine. Che cosa resterà, ci si domanda a poche ore dalla sua scomparsa, del caudillismo di Hugo Chávez, già fin d’ora destinato far compagnia a Che Guevara e a Evita Perón nel Parnaso dei miti latini? E dove andrà ora il Venezuela, sotto la guida del vicepresidente Maduro o forse un domani sotto quella dell’oppositore Henrique Capriles o del discusso presidente del Parlamento Diosdado Cabello?
Non tutto dello chávismo è certamente da buttare. Non l’idea di uno Stato sociale che il pur ricco Nordamerica rischia quotidianamente di dover abbattere dalle fondamenta, né la visione di un mercato interno caraibico e latino molto prossimo al modello europeo. Ma per traghettare il Venezuela dal mito bolivarista alla realtà ci vorrà un leader che non sia più un caudillo. Per il quale l’ingresso nella modernità e nella democrazia, quella vera, diventi l’obbiettivo principale. Nell’attesa che anche a Cuba, definitivamente, cali il sipario sulla saga dei Castro.