Le grandi crisi – e la nostra lo è – sono momenti di cambiamento di paradigma. La crisi degli anni Trenta del Novecento produsse la rivoluzione keynesiana, ma l’affermazione di quel nuovo paradigma fu preceduta da un lungo periodo di confusione metodologica, che scompaginò tesi consolidate da secoli. Lo stesso Keynes divenne keynesiano, abbandonando le proprie precedenti teorie. Durante le epoche di passaggio, i confini tra i precedenti paradigmi si confondono, i tradizionali dogmi diventano opinabili, le certezze si tramutano in incertezze. Oggi sta accadendo qualcosa del genere, e le classiche distinzioni tra politiche economiche di destra e di sinistra sfumano, in certi casi si ribaltano, si confondono. Ciò è particolarmente evidente in tema di diseguaglianza e libero mercato. La visione tradizionale era molto polarizzata. Il pensiero socialista associava l’espandersi del libero mercato all’aumento della diseguaglianza, il pensiero liberale tollerava di più le diseguaglianze perché dava la priorità alle libertà individuali. Questa visione tradizionale e speculare è saltata, e oggi vediamo autori liberali teorizzare che l’espansione del libero mercato riduce la diseguaglianza, e intellettuali che si definiscono di sinistra diventare paladini delle liberalizzazioni. E così anche all’interno degli stessi schieramenti politici si ritrovano candidati che esprimono tesi radicalmente diverse su questo punto decisivo della democrazia e della economia attuali.
Per uscire da questa sorte di 'notte del pensiero' sarebbe necessario specificare di
quale mercato si sta parlando. I mercati non sono tutti uguali, perché sono il frutto di progetti politici e civili. C’è un mercato che ha ridotto e continua a ridurre le disuguaglianze, e c’è un mercato che le ha fatte crescere e che continua a incrementarle. Il primo lo chiamiamo
civile, il secondo
capitalistico. E in Europa convivono all’interno degli stessi Paesi, Italia compresa.
Il mercato della cooperazione, dell’impresa sociale, della finanza etica, dei distretti del 'Made in Italy', è stato e in parte è ancora un grande strumento di civiltà, che ha al tempo stesso ridotto la diseguaglianza e aumentato le libertà individuali. L’altro mercato, quello capitalistico, in certe brevi e felici fasi della storia dell’Occidente è stato anche alleato del mercato civile (si pensi, ad esempio, all’Italia del miracolo economico), ma nella fase attuale di capitalismo finanziario sta aumentando le disuguaglianze e riducendo le libertà sostanziali di troppe persone, soprattutto delle più povere e fragili.Come mostrava a fine Ottocento l’economista italiano Maffeo Pantaleoni, a differenza delle corse di cavalli o di atletica, nella 'corsa del mercato' non esistono soltanto i forti e i deboli, perché chi nel mercato vince oggi, domani parte più avanti nella linea di partenza, poiché le posizioni finali influenzano anche le posizioni iniziali. Ecco perché un mercato senza un pubblico che ogni tanto ri-allinei le posizioni iniziali (ad esempio con il Patto Fiscale di cui su 'Avvenire' si è molto scritto), non è luogo di libertà, ma di iniquità. C’è, poi, un altro elemento da tener ben presente quando si parla di mercato senza aggettivi qualificativi.Quando ero studente, il programma che introduceva il Tg1 delle 20 si intitolava 'Almanacco del giorno dopo', e vi si alternavano storia, cultura, etologia. Oggi quella fascia oraria è coperta da giochi e 'pacchi', autentiche liturgie alla dea fortuna. Il libero mercato si basa sui gusti dei consumatori (l’audience è una applicazione di questa logica): è questa la sua grande forza, che però, se non accompagnato da altro, diventa anche grande debolezza. Affinché il mercato non diventi una gara al ribasso su tutti i fronti, c’è un vitale bisogno di forti investimenti nella scuola e nella cultura, che offrano ai cittadini strumenti per esercitare coscienza critica e vera libertà di scelta.
Il mercato, perché sia veramente civile e luogo di libertà, ha bisogno di cittadini che siano nelle condizioni di poter effettuare scelte informate. Se oggi le imprese che investono in settori come arte, cultura, giustizia, ma anche cibo biologico e energie bio-sostenibili, non sono accompagnate dalla società civile e dallo Stato che offrono educazione e formazione adeguata a partire dalle scuole, sono condannate a partire troppo indietro nella 'corsa' del mercato. In Italia, ad esempio, l’educazione musicale, alimentare, ambientale, al consumo dei bambini e degli adulti è nulla o tragicamente troppo insufficiente, e se non sappiamo distinguere tra una canzone pop e una sinfonia di Beethoven, o tra un caffè del commercio equo e un caffè che costa poco perché prodotto sfruttando i lavoratori, persino lo 'sviluppo' dei mercati peggiora tutti e tutto. Se vogliamo dar vita a un mercato che aumenti sia le libertà sia l’uguaglianza, investiamo di più nella scuola e nella cultura, e cambiamo programmi scolastici. Ma, soprattutto, a chi parla di mercato, politici compresi, chiediamo sempre di quale mercato parlano e quale mercato vogliono; perché i mercati sono molti, e non tutti sono buoni.