L’incontro del padre e della madre di Giulio Regeni con i giornalisti, faccia a faccia, a dire il disperato bisogno di verità in un luogo istituzionale come l’aula Nassirya del Senato, riporta di colpo l’attenzione di tutti a quel picco di sofferenza che è il nocciolo incandescente della tragedia interna alla famiglia, il suo profilo per così dire "privato", il suo intimo e indicibile strazio. E ce ne viene una commozione infinita. Ma subito si aggiunge un nostro coinvolgimento crescente, protagonista a sua volta, un moltiplicato dolore e una centuplicata indignazione per ciò che tuttora pare offuscare la ricerca di verità, perché la morte di Giulio Regeni non è una storia privata. C’è la faccia d’Italia, sul campo, anzi c’è la faccia del mondo civile, l’interpello di oltre 4.600 esponenti del mondo universitario internazionale, l’attenzione della stampa mondiale in cui spicca il duro affondo del "New York Times" sino a mettere in forse le scelte circa gli equilibri e le strategie fondamentali Usa di alleanze o divergenze.È una storia tenebrosa in cui è difficile far luce. Le versioni, o le piste, volta a volta fornite dalle autorità egiziane, a partire dall’incidente stradale o dall’aggressione di rapinatori, fino al sequestro a opera di oppositori del regime egiziano, o infine al crimine di delinquenti comuni già a loro volta uccisi, suonano irritanti e fin beffarde, di fronte a quel corpo torturato per giorni in modo "professionale", come detto dagli esperti, fino a morire; così che l’immagine di un "interrogatorio" gestito da professionisti del supplizio, addetti alla repressione da parte proprio del regime, ci si è piantata nel cervello come la fotografia di quella morte.Naturalmente, finché la coltre di tenebra non sia tutta dissipata, anche mediante l’intervento dei nostri segugi, e con la forza di prove risolutive, anche questa nostra interiore visione rimane una congettura; con tante e gravi ragioni di sospetto e di inchiesta, sì, ma non uno stampo che risucchi da sé la risposta forzata; o imponga all’Egitto il dilemma fra confessare il crimine di Stato, cioè la sua infamia, o esser giudicato impostore. Forse non accadrà, forse ci resterà l’atroce dubbio, il suo morso più doloroso della più tragica fra le risposte. E dovremo allora spostare il baricentro dell’attenzione su un orizzonte più largo che la sola tragedia di Giulio Regni, mettendo in campo quanto gli stessi genitori di lui hanno inteso rammentare, per bocca del rappresentante di Amnesty International, sugli arresti, le torture (676 casi nel 2015, e già altri 88 nel 2016, con 8 morti), le centinaia di persone "sparite", nel Paese governato dal generale al-Sisi dopo il golpe del luglio 2013 e le successive nuove elezioni.Se questi dati di Amnesty sono il vero, lo scandalo, l’infamia, è globalmente qui, scoperchiata. E la verità giudiziaria che si va cercando, nel ping pong diplomatico, imbronciato quel tanto che vuole la platea, ma timido e guardingo rispetto ai rischi di una rottura, non è risolutiva di niente fino a quando non saranno tutti questi torturati e tutti questi
desaparecidos l’argomento affrontato dall’Italia e dal mondo, e anteposto a ogni ragion di Stato.Purtroppo, in tema di tortura, non sono molti i predicatori innocenti. Tutti hanno firmato la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura, ma in pratica in molti l’hanno tradita. In oriente e in occidente. Non solo nelle dittature, anche nelle democrazie. Persino in paesi-simbolo del progresso civile e dei diritti, come il Regno Unito, quando si torturarono i separatisti dell’Ira; e a Guantanamo, che Barack Obama non è riuscito a chiudere in otto anni di presidenza, col cosiddetto
water boarding. E qualche biasimo episodico è toccato anche a noi, dalla Corte di Strasburgo. È questa, infine, la verità che chiede al mondo il corpo distrutto di Giulio Regeni: basta con le menzogne, basta con le torture, mai più.