Una preoccupazione che assilla molti osservatori della prossima elezione del Presidente della Repubblica è che il Parlamento allargato non riesca a trovare in tempi brevi la soluzione e che servano quindi numerose votazioni per arrivare al risultato. Fra le voci più autorevoli e più allarmate c’è quella di Paolo Mieli che sostiene che «dopo la quinta votazione... si apriranno le porte dell’inferno » perché le ripercussioni sul Governo saranno inevitabili. «Le votazioni a vuoto saranno state, ognuna, un colpo di martello, sempre più violento, alle fondamenta di un altro edificio, Palazzo Chigi». In effetti, i rischi che accompagnano questa importante scadenza sono tanti, ma proprio per questo è meglio espungere quelli che non sono fondati. Se il problema si porrà, cioè se le forze politiche non troveranno una intesa prima della quarta votazione, non è detto che non la trovino dopo.
La più ampia maggioranza di voti favorevoli (82,3%) si è registrata in passato nella elezione di un grande Presidente della Repubblica, Pertini, che avvenne alla sedicesima votazione. Anche la scelta più continuista, quella della rielezione di Sergio Mattarella, non potrebbe avvenire se non a larga maggioranza dopo il fallimento di altri tentativi. Napolitano, che era stato eletto la prima volta alla quarta votazione (con il 53,8%), è stato eletto la seconda volta alla sesta votazione (con il 73,2%). Anche una eventuale elezione di Mario Draghi, nella condizione data cioè senza un preventivo ampio accordo, potrebbe avvenire dopo diverse votazioni. Non vi sarebbe quindi in modo automatico una crisi di Governo a seguito di una elezione accompagnata da scontri fra le forze politiche, né la si avrebbe se fosse eletto Draghi anche al di fuori di un previo accordo sul Governo: è difficile ipotizzare che il Presidente della Repubblica Draghi mandi il Paese a elezioni anticipate facendo cadere tutto il suo progetto. Non va dato per scontato nemmeno che si avrebbe una crisi di Governo nell’ipotesi, da non augurarsi, che l’elezione del Presidente avvenga senza l’auspicato ampio consenso.
Fra i nomi dei candidati che circolano o che potrebbero emergere nei prossimi giorni non ve ne è nessuno talmente divisivo da provocare la caduta del Governo. In effetti ce ne è uno, Silvio Berlusconi, la cui candidatura appare ad alcune forze politiche talmente provocatoria da ventilare la crisi. Ma è opinione diffusa che questa candidatura non troverà i voti sufficienti e questo è altamente probabile non solo e non tanto perché è difficile trovare oltre 50 voti al di fuori della coalizione che la ha proposta, ma soprattutto per il precedente dei 101 voti assicurati e poi non dati alla candidatura di Romano Prodi. D’altra parte, il voto segreto, che per principio generale si applica alla votazione sulle persone, è in questo caso applicazione emblematica dell’art. 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Si può pensare, come alcuni propongono, di ridurre l’ambito di applicazione di questo principio, ma non in ordine alla elezione del rappresentante dell’unità nazionale.
Ragionando in termini di marcata probabilità c’è da ritenere che un politico esperto come Berlusconi non si esporrà a una fine ingloriosa della sua carriera, che avrebbe tra l’altro un effetto deflagrante per la sua coalizione, e non confermi quindi la candidatura. Va poi aggiunto che se, per mera ipotesi astratta, Berlusconi venisse eletto, non si vede perché il Pd ne dovrebbe far pagare lo scotto a Draghi e pagare anch’esso il costo elettorale di una decisione non voluta dall’opinione pubblica. Le scelte politiche si fanno per “convenienza” e non per risentimento. Probabilmente ne è consapevole anche Enrico Letta, che l’ha prospettata anche per scoraggiare i grandi elettori ad approvarla. Si viene così all’unica, vera, preoccupazione che è giustificata e profonda: il Paese, come tutti sanno, attraversa un periodo pieno di gravi rischi e di straordinarie potenzialità. La politica espansiva adottata dal governo Draghi si regge sul presupposto che si determini una forte crescita con l’utilizzazione dei fondi europei. L’alternativa è un disastro. Dunque, le “convenienze” che hanno consentito la nascita dell’attuale esecutivo non sono cambiate, anzi si sono accentuate.