venerdì 7 ottobre 2016
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La riforma è in arrivo. Non serva solo a risparmiare Alcuni giorni fa si diffusa la notizia di un’imminente riforma dell’esame di maturità, prospettiva che ha suscitato più di un allarme. Innanzitutto tranquillizziamo gli studenti che stanno frequentando l’ultimo anno di scuola superiore: le eventuali novità non li riguarderanno, ma andranno caso mai a interessare – se va bene – i maturandi del 2018. Il fatto che l’esecutivo dovesse porre mano a una modifica dell’assetto dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo scolastico era comunque nell’aria, giacché la legge 107 del 13 luglio 2015 (la cosiddetta legge della 'buona scuola') recita al comma 180 dell’unico, lunghissimo articolo di cui è costituita: «Il Governo è delegato ad adottare, entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi al fine di provvedere al riordino, alla semplificazione e alla codificazione delle disposizioni legislative in materia di istruzione, anche in coordinamento con le disposizioni di cui alla presente legge».

E più avanti, alla lettera i) del comma 181, si parla esplicitamente di un «adeguamento della normativa in materia di valutazione e certificazione delle competenze degli studenti, nonché degli esami di Stato (...), mettendo in rilievo la funzione formativa e di orientamento della valutazione». 

 Che cosa può voler dire concretamente tutto ciò? Proviamo a tradurre questo lessico burocratico in ipotesi concrete, le stesse che stanno circolando in queste settimane e che sono uscite sui giornali a mo’ di indiscrezioni. L’idea di fondo è che gli esami finali non solo quello di maturità, ma anche quello di terza media, posto alla fine del primo ciclo di studi - debbano certificare gli apprendimenti effettivi conseguiti dagli studenti in termini di competenze.

Non più, dunque, voti assegnati per stilare più che altro una sorta di graduatoria di bravura all’interno di una classe o di una scuola, ma fasce di abilità, capacità e competenze concretamente possedute dagli studenti. Per rendere più evidente questo cambiamento di mentalità, qualche pedagogista suggerisce l’opportunità di passare delle attuali scale in decimi (esame di terza media) e in centesimi (esame di maturità) a una scala in cinque lettere (dalla A, il livello massimo, alla E, quello minimo), come si usa già in diversi Paesi dell’Unione Europea. 

Quello che è certo è che sarebbe effettivamente utile che il diploma di maturità dicesse qualcosa di reale - e di oggettivo - in merito alla preparazione di chi l’ha conseguito. Buona dunque l’idea di eliminare l’attuale terza prova realizzata dalle singole commissioni e di sostituirla con prove Invalsi di Italiano, Inglese e Matematica, sia che i loro risultati cooperino a comporre il voto finale sia che si decida di riportarli semplicemente sul diploma affinché possano avere un valore orientativo per il prosieguo degli studi all’Università o, per coloro che decidessero di non iscrivervisi, per la ricerca di un posto di lavoro.

Così ci si avvicinerebbe, se pure non la si otterrà mai del tutto, a un’uniformità nazionale che oggi non c’è: chi insegna all’università e ha studenti provenienti da varie zone del Paese sa che a uno stesso voto di maturità conseguito in scuole di città e regioni diverse possono corrispondere livelli di preparazione anche molto lontani tra loro.

Per questo stesso motivo non sarebbe invece un’ipotesi condivisibile quella di passare dall’attuale composizione mista delle commissioni – per metà membri interni e per metà esterni, con la supervisione di un presidente esterno – a commissioni tutte interne, salvo eventualmente il presidente. Temiamo che una proposta di questo tipo non avrebbe altra ragione se non quella di risparmiare qualche soldo sulle indennità dei commissari esterni, già oggi, comunque, scelti all’interno della stessa regione di servizio, e non più in ambito nazionale come avveniva solo alcuni anni fa. Insomma – questo è certo – i cambiamenti entro pochi mesi ci saranno: lo impone la legge. Ma non bisogna guardarli necessariamente con preoccupazione.

Sarebbe l’occasione per ridare senso e credibilità a un esame che da anni è sottoposto a varie critiche, ma che mantiene ancora il significato di un fondamentale momento di crescita e di passaggio. È tuttavia auspicabile che i soggetti preposti a decidere si ispirino a una visione d’insieme coerente e comprensibile per coloro che poi – studenti e insegnanti – saranno chiamati ad affrontarli e a metterli in atto.

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