Considero una grande grazia di Dio aver conosciuto per lunghi anni e in modo abbastanza intimo Marcello Candia, ed averne poi scritto la biografia («Marcello dei lebbrosi») dopo la sua morte (31 agosto 1983), per incarico della "Fondazione Candia" che ne continua il ricordo e l’opera di carità. La sua "santità" era già emersa quando era in vita, ma mi è apparsa evidente dopo la morte, quando ho intervistato un centinaio di persone che l’hanno conosciuto e hanno collaborato con lui. Marcello ha lasciato un segno positivo in tutti coloro che ha incontrato. Quando nel 1986 preparavo il materiale per la sua beatificazione (la causa è iniziata nel 1991), il cardinale Carlo Maria Martini mandò una lettera a tutti i vescovi italiani per chiedere il loro parere su Candia. Risposte tutte positive, e di 86 mi consegnò la fotocopia per l’Archivio Candia. Martini diceva: «Sono le migliori testimonianze della sua fama di santità». Il 3 ottobre 1989 ero a pranzo con Giovanni Paolo II, che nel 1981 aveva visitato il lebbrosario di Marituba. Mi chiede a che punto è la sua causa di beatificazione. Rispondo che è prossimo l’inizio e lui dice: «Fate in fretta, fate in fretta, è un testimone laico eccezionale dell’amore ai poveri». Ricordo con commozione i numerosi incontri con Marcello. Aveva consacrato la sua vita a Dio e ai poveri, rimanendo laico: «Il battesimo è la mia vocazione missionaria e mia mamma mi diceva: chi ha molto ricevuto, deve dare molto. Io ho ricevuto moltissimo dal Signore e debbo dare tutto». Nella sua azienda a Milano, in un angolo del cortile fra il muro di cinta e lo stabilimento, aveva fatto costruire una panca con un ombrello di cemento. Diceva: «Questo è il mio angolo della preghiera, quando sono troppo teso e stanco vengo a riposarmi un po’ pregando». Questo l’ho saputo interrogando una sua segretaria, ma sono testimone di un altro fatto. A dicembre («quando gli italiani hanno il cuore in mano») veniva in Italia per rispondere alle molte richieste. Soffriva il freddo per il mal di cuore (cinque infarti e un’operazione al cuore). Una sera con la neve per terra dovevo portarlo a Piacenza e lo stavo aspettando in auto. Si sarebbe tornati a mezzanotte. Lui esce tenendo una borsa in mano e con l’altra premendosi il petto. Dice: «Ho mal di cuore». Gli dico di stare a casa, vado io al suo posto e so cosa dire. «No, ho promesso di andare e mi aspettano». Lungo la strada in genere si recitava il Rosario, ma quella sera dice: «Prega tu, io sto in silenzio e ripeto la giaculatoria di mia mamma; Signore, aumenta la mia fede!». Marcello, di fede ne hai già tanta, gli dico. E lui risponde: «Piero, la fede non basta mai». Aveva venduto anche la sua casa a Milano e quando veniva in Italia era ospite del Centro missionario Pime, viveva con noi padri e fratelli. Era sempre occupato, alla sera non guardava il telegiornale perché diceva che doveva telefonare. Non aveva orari per i pasti, mangiava quando era libero e dormiva poco, l’unico imperativo erano la Messa al mattino e il Rosario e altre preghiere. In Italia, grazie alle sue visite per parlare di Macapà (gli amici lo chiamavano "il dottor Macapà") era diventato una figura simbolica, una specie di Madre Teresa al maschile. Sono ritornato per la quinta volta in Amazzonia nel gennaio 1996. Nel lebbrosario di Marituba ho incontrato i lebbrosi che avevano conosciuto Marcello, specialmente Adalucio, più volte eletto "capo" dei lebbrosi, al quale ho chiesto: «Perché tredici anni dopo la sua morte lo ricordate ancora e lo pregare?». Mi ha risposto: «Marcello non solo ci ha aiutati materialmente, ma faceva tutto per amore di Dio, non cercava nulla per sé, ma tutto per gli altri, i poveri, gli ammalati, i lebbrosi. Lui, ricco, colto e importante nel mondo, veniva a spendere la vita fra noi che non potevamo dargli nulla in cambio. Noi pensavamo: se lui è un uomo così buono, quanto più dev’essere buono Dio!».